Governo italiano e autorità europee stanno trattando a oltranza per giungere a un accordo sul bilancio programmatico del 2019 ed evitare all’Italia l’onta gravosa di una procedura per debito eccessivo. Il merito di aver saputo riaprire un negoziato che appariva naufragato appena due settimane fa è probabilmente da intestare al premier Giuseppe Conte, riuscito nel doppio intento di riportare su binari istituzionali il confronto con la Commissione (dopo mesi di scontri frontali) e di essersi scrollato di dosso la poco onorevole effige di re Travicello. La trattativa potrebbe giungere a conclusione già nelle prossime ore, data utile sia per rispettare il calendario parlamentare italiano (l’inizio dell’esame della manovra in Senato è previsto per martedì), sia quello della Commissione, destinata a radunarsi mercoledì nell’ultima riunione dell’anno.
La vicenda non è ancora conclusa, eppure offre già diversi spunti di riflessione. A cominciare dalle ragioni di un cedimento che per alcuni suona come l’ennesima resa italiana ai diktat europei e che soprattutto stride con la retorica muscolare esibita per tanto tempo da M5s e Lega. Il fatto è che nel suo scontro con Bruxelles, Roma si è trovata completamente isolata. Persino i capi di governo che l’attuale maggioranza gialloverde considera alleati o comunque più sensibili alle proprie istanze hanno chiesto pubblicamente che l’Italia venisse punita se non si fosse giunti a un compromesso con la Commissione europea. Da non trascurare neppure gli effetti sull’economia nazionale derivanti dall’aumento dello spread registrato negli ultimi mesi e il pericolo di assistere alla progressiva erosione dei capitali delle banche. Ci sono poi le conseguenze politiche della possibile riduzione del deficit al 2,04% del Pil, che costringerebbe gli alleati di governo a rinunciare a circa 8-10 miliardi mettendo in moto un duro confronto interno sulla ripartizione delle misure da tagliare. La trattativa fra governo e Commissione avviene inoltre in un frangente segnato da un brusco cambio di scenario a livello continentale. Dopo le proteste popolari del novembre-dicembre 2018 contro le ricette economiche importate dalla Germania, il presidente Emmanuel Macron ha dovuto promettere l’adozione di una serie di misure di sostegno alle fasce povere che spingeranno i conti dello Stato francese ben oltre la soglia del 3% fissata dai parametri di Maastricht. Parigi ha disatteso per anni le regole fiscali europee, ma si era adeguata al verbo dell’austerità nel 2017 per convincere Berlino di essere un interlocutore affidabile e dunque favorire la riforma dell’Unione Europea voluta da Macron. La sola ipotesi di uno strappo francese ha scatenato le prevedibili comparazioni italiane, aprendo un nuovo fronte di crisi potenziale con Bruxelles e, ciò che più conta, con Berlino. Prova ne siano gli attacchi lanciati negli ultimi giorni dalla stampa tedesca contro il proprio vicino d’oltre Reno. Così, dopo le feroci polemiche estive per la gestione della crisi migranti, il presidente Macron si è trovato di fatto a condividere le ragioni delle politiche di bilancio espansive prospettate dal governo del cambiamento. Inducendo le sin qui algide autorità europee a manifestare, forse, la loro improvvisa generosità all’Italia.
Alberto De Sanctis