Un governo di coalizione nasce dall’alleanza di due o più partiti su un programma comune, che può essere dichiarata prima delle elezioni oppure composta dopo il voto. Al tempo della Prima Repubblica, l’alta variabilità dei governi in carica non impediva la coesistenza di formule politiche di medio-lungo periodo, ovvero capaci di sopravvivere alla durata circoscritta dei singoli esecutivi che le animavano. Fu il caso delle coalizioni centriste tra il 1947 e il 1960, della coalizione di centrosinistra tra Dc e Psi dal 1962 al 1976, del compromesso storico Dc-Pci tra il 1976 e il 1979, infine del pentapartito dal 1980 a Tangentopoli. Successivamente, l’introduzione del maggioritario dal 1993 ha contribuito a rendere il sistema bipolare, con la competizione spostata tra centrosinistra e centrodestra, ovvero due raggruppamenti di sigle partitiche molto frammentati al loro interno. Dalla crisi del 2011 (tracollo del Berlusconi IV e costituzione dell’esecutivo tecnico di Mario Monti) l’Italia è sostanziamene disabituata alla presenza di coalizioni a Palazzo Chigi – intese in questo caso come arte di governo fondata sulla concertazione, spesso complessa, tra forze antitetiche. Se è vero che l’esperimento del governo Letta basato sull’alleanza Pd-Forza Italia non ha superato l’anno di vita, sia il Renzi I che il Gentiloni I erano di fatto due monocolori Pd sorretti dall’appoggio – molto più numerico che politico – garantito loro dalle pattuglie parlamentari di Ncd e Al-A. La decisione, dunque, era sostanzialmente verticale e la mediazione circoscritta alle dinamiche di qualsiasi ordinamento democratico e parlamentare.
In questo senso il governo del cambiamento penta-leghista può essere inteso come un ritorno al passato. Interrogati sui possibili scenari politici in caso di rottura del patto, l’ampia maggioranza di analisti e commentatori è concorde nel profetizzare un ritorno nell’alveo del centrodestra per la Lega e il raggiungimento di una qualche forma d’intesa con il Pd (o con quel che ne rimarrà) per il M5s. Segno inequivocabile delle indelebili discrepanze che distinguono i contraenti dell’alleanza gialloverde, peraltro note e cartografate da tempo. Le tensioni sono montate soprattutto nell’ultimo mese in materia di giustizia (scontro sulla riforma della prescrizione), lavoro (in particolare reddito di cittadinanza, che non piace al Carroccio ma è il cavallo di battaglia dei Cinquestelle) e futuro delle infrastrutture strategiche nazionali, come il contestatissimo Tav Torino-Lione e la rete di Tim, in odore di fusione con la rivale Open Fiber. In seno a tale intricato garbuglio c’è però un vero e proprio doppio-collante che, di fatto, rende granitico l’accordo fra Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Da una parte i rapporti con l’Europa, dall’altra la gestione dell’emergenza migranti, due dossier cruciali su cui vedute e posizioni degli alleati gialloverdi sono state sino a oggi pressoché sovrapponibili. Sicché il grande interrogativo che aleggia sul futuro dei Dioscuri e della loro coalizione di governo riguarda proprio la capacità di questi due fondamentali punti di convergenza di annullare le restanti ed evidenti differenze. Detto in altri termini: val davvero la pena far cadere l’esecutivo pur di (non) approvare il Tav?
Alberto De Sanctis