Nata con l’Unità d’Italia, la Cassa depositi e prestiti (Cdp) ha giocato, letteralmente, un ruolo decisivo nella costruzione del Paese fra Otto e Novecento, forte del suo ruolo storico di ‘fortino’ del risparmio postale nazionale prima di essere trasformata, in tempi più recenti, in banca pubblica di sviluppo a partire dalle decisioni dell’allora ministro Tremonti nel 2003. Controllata per oltre l’80% dal Ministero dell’Economia e delle finanze e per la parte restante da diverse fondazioni bancarie, rappresenta di fatto la terza istituzione bancaria italiana dopo Unicredit e Intesa Sanpaolo con più di 400 miliardi di euro a bilancio. Soltanto nell’ultimo biennio, il colosso è intervenuto in supporto del governo in crisi aziendali e partite delicate come quella per il fondo Atlante (650 milioni), nell’edilizia scolastica (900 milioni) e soprattutto in Telecom Italia (800 milioni), difendendo le attività italiane nella società telefonica nei confronti dei soci francesi di Vivendi e al fianco del fondo americano Elliott. Nelle ultime settimane il futuro della strategica istituzione finanziaria è finito al centro del c.d. dossier nomine, uno dei più caldi fra quelli presenti sulla scrivania del premier Giuseppe Conte. Per le forze di maggioranza si trattava di un passaggio fondamentale, destinato a determinarne la capacità di plasmare il Paese secondo il contratto di governo, nonché di un test sulla tenuta dell’alleanza gialloverde. Nei desiderata del M5s, l’istituto dovrebbe infatti agire sulla falsariga di una banca per gli investimenti, fornendo credito a tassi moderati alle piccole e medie aziende e finanziando iniziative di interesse pubblico e strategico nazionale.
Come, ad esempio, l’operazione Alitalia, tornata alla ribalta proprio nelle ultime ore benché lo statuto di Cdp sia stato plasmato per scoraggiare operazioni finanziarie eccessivamente disinvolte. Dopo i contrasti e i dissidi che hanno contrapposto il ministro dell’Economia Giovanni Tria e i due vicepremier Luigi di Maio e Matteo Salvini, il titolare del Mef avrebbe accettato la candidatura di Fabrizio Palermo al ruolo di nuovo amministratore delegato di Cdp, ottenendo in cambio la nomina di Alessandro Rivera come prossimo direttore generale del Tesoro. Se mai ce ne fosse stato bisogno, la vicenda ha portato alla luce le tensioni che minacciano da qualche tempo il rapporto fiduciario fra Tria e i leader gialloverdi, già insofferenti per il suo costante ribadire la necessità di coniugare gli impegni elettorali – flat tax e reddito di cittadinanza – a quelli europei sui vincoli di spesa. La prova del nove arriverà in autunno, quando il governo presenterà la sua legge di Bilancio e in parlamento si accenderà la consueta battaglia. Negli ultimi giorni la tensione politica ha investito anche le nomine sulle presidenze delle giunte parlamentari, fino alla scelta di Alberto Barachini (Fi) alla Vigilanza Rai e di Lorenzo Guerini (Pd) al Copasir, e promette di continuare anche sulle Ferrovie dello Stato. L’incarico dell’ad Renato Mazzoncini è infatti in bilico dopo la comparsa di un avviso di garanzia, mentre i due sottosegretari ai Trasporti della Lega si sono espressi contro la maxi fusione con Anas nonostante la posizione più vaga e interlocutoria assunta dal ministro Toninelli.
Alberto de Sanctis