Cronache USA
Trump 2: 50 giorni alla Casa Bianca, lui sempre in piedi, Musk sotto tiro
Di Giampiero Gramaglia
50 giorni di Donald Trump alla Casa Bianca: il magnate presidente resta in auge. Nonostante metta e tolga dazi senza logica apparente, sia tracotante con Volodymyr Zelensky e offra ramoscelli d’ulivo a Vladimir Putin, si sia circondato di uomini e donne tutti ‘yes men’. Più facile, se non altro perché meno rischioso, criticare Elon Musk, l’uomo più ricco al mondo ha preso in prestito dall’argentino Javier Milei la motosega per tagliare posti di lavoro dell’Amministrazione federale e spese pubbliche. Verso Trump, tutti – ministri e funzionari – “tengono la bocca cucita”, perché – scrive il New York Times – criticare il boss espone a ritorsioni.
I 50 giorni del Trump 2 quasi coincidono con i 100 giorni del secondo mandato della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, scadenza cui nessuno avrebbe probabilmente prestato attenzione se non ci fosse stato l’avvento di Trump: il cambio di rotta degli Usa a 180° sull’Ucraina, le mire sulla Groenlandia, l’ostilità all’Ue “che è nata per fregarci” – letteralmente, “fotterci” – creano stress nelle relazioni tra America ed Europa. La replica di UvdL 2 al Trump 2 è un piano improvvisato dal nome mediaticamente sbagliato, ‘ReArm Europe’, per affrontare un’esigenza profonda divenuta emergenza: rendere l’Europa più capace di badare alla propria difesa e alla propria sicurezza.
La marcia (non proprio) trionfale del duo Trump & Musk è punteggiata di ‘stop and go’ – i dazi: li metto e li tolgo e, poi, forse, li rimetto -; di contro-performances – l’inflazione, che doveva calare, sale e la borsa, che doveva essere euforica, s’è depressa -; di battute d’arresto, che spesso arrivano dai giudici e, in almeno un caso, dalla Corte Suprema, sulla carta acquisita alla causa trumpiana. Nelle aule di giustizia, vengono contestati licenziamenti ‘ritorsivi’ o indiscriminati, misure che violano le leggi o la Costituzione e che costituiscono abusi di potere da parte del presidente.
L’ultima massiccia contestazione giudiziaria viene da una coalizione di Stati democratici: chiedono ai giudici di bloccare il licenziamento indiscriminato di dipendenti pubblici in prova e di reinsediare nei posti di lavoro quelli già cacciati. Fra le decisioni del Trump 2 più contestate, l’azzeramento (o quasi) dell’Agenzia per gli aiuti allo sviluppo (USAid), i tagli alla previdenza sociale e all’Agenzia delle Entrate, la richiesta ai dipendenti di raccontare in dettaglio allo Zio Sam, alias Elon, che cosa hanno fatto nell’ultima settimana. E poi ci sono i licenziamenti ‘punitivi’, dei funzionari non allineati e di quelli addetti ai controlli anti-corruzione e anti-discriminazione. Senza contare i casi – comici, se non ci fosse di mezzo la sicurezza planetaria – dei tagli fatti con leggerezza criminale: gli addetti alla sicurezza delle testate nucleari sono stati cacciati, salvo poi essere reintegrati quando s’è capito che la loro opera era essenziale -.
Invece, la politica è acquiescente: un po’ perché i critici nelle fila dei repubblicani temono ritorsioni – parlano solo quelli che hanno già deciso di lasciare, come il vecchio senatore Mitch McConnell -; e un po’ perché i democratici, a oltre quattro mesi dalla sconfitta elettorale del 5 novembre, sono ancora ‘vincoli e sparpagliati’ che peggio non si può. Una considerazione che contribuire a spiegare il sottotono dei democratici, è che Trump “non può essere gettato giù dal suo piedistallo”, perché – scrive Erika L. Green sul New York Times – “le sue contraddizioni sono la sua stessa garanzia”: “cambia posizione e racconta una menzogna diversa ad ogni occasione ed è impossibile inchiodarlo alle sue responsabilità”.
All’estero, gli interlocutori di Trump, in primo luogo gli ucraini e gli europei, hanno capito che quel che il magnate dice va preso sul serio, anche se a volte appare una barzelletta. Vale per la pretesa di riappropriarsi del canale di Panama – problema già risolto con l’acquisizione di due porti panamensi da parte di una società statunitense, che li ha comprati da una società cinese -; e vale per la volontà d’acquisire la Groenlandia, ieri al voto; e vale per l’ambizione di fare del Canada il 51° Stato dell’Unione. Il premier canadese Justin Trudeau, declassato a ‘governatore’, all’inizio l’aveva presa come uno scherzo, ma ora la prende “terribilmente sul serio”, riferisce il Washington Post, mentre s’avvicinano le elezioni nel suo Paese. Tra l’altro, le minacce di Trump puntellano la posizione, fin qui traballante del partito liberale, che – fattosi da parte Trudeau – punta come candidato premier sull’ex presidente della banca centrale Mark Carney.
In politica internazionale, i tratti forti dei primi 50 giorni del Trump 2 sono gli approcci – predatori e affaristici – alle paci in Ucraina e nella Striscia di Gaza: se la sintonia con il premier israeliano Benjamin Netanyahu era scontata, l’affinità con il presidente russo Vladimir Putin appare di giorno in giorno più evidente. “Si sapeva – scrive in sintesi Mark Mazzetti sul New York Times – che Trump è un ammiratore di Putin, ma il cambio di rotta imposto alla politica estera degli Stati Uniti potrebbe avere un impatto profondo”. E Ishaan Tharoor sul Washington Post si chiede se “Trump non veda il Canada come Putin vede l’Ucraina”.
Interrogativo legittimato dalle sortite, apparentemente estemporanee, di Musk, che, sui social, evoca l’impatto di togliere Starlink agli ucraini – “le linee di difesa crollerebbero” -, salvo poi assicurare che non lo farà; e invita gli Usa a uscire dalla Nato, trattando da “ometto” il ministro degli Esteri polacco Radoslaw Sikorski che gli contesta “l’etica di minacciare la vittima di un’aggressione”.
Jess Bidgood sul New York Times s’interroga su che cosa possa significare la levata di scudi recente in una riunione di gabinetto contro Musk. Un effetto – ipotizza Bidgood – è che “il miliardario cui piace non avere controlli” e parlare a ruota libera “potrebbe trovarsi limitato nella sua azione”. Però, molti fra i trumpiani sembrano davvero credere che Musk sia il primo a scoprire sprechi e frodi nell’Amministrazione pubblica (anche se i risparmi vantati non trovano riscontri concreti).
Gli ostacoli al Trump 2 vengono dalla routine e dagli eccessi di piaggeria dei ‘servi sciocchi’. C’è, ad esempio, da mantenere in funzione l’apparato federale, sventando un rischio di shutdown – cioè di parziale serrata dei servizi pubblici -. Lo speaker della Camera Mike Johnson ha un piano che garantisce la copertura delle spese almeno fino al 30 settembre: il lato positivo è che i repubblicani non sarebbero accusati dall’opinione pubblica di provocare uno shutdown mentre hanno tutte le leve del potere esecutivo e legislativo; il rovescio della medaglia è che Trump dovrebbe tirare avanti fino all’autunno con il bilancio preparato dal suo predecessore Joe Biden.
Quanto ai ‘servi sciocchi’, misure prese per compiacere l’impostazione neo-suprematista del Trump 2 appaiono al limite della stupidità (o sono forse semplicemente dettate dall’ignoranza) – e, magari, c’è pure chi si diverte ad eseguirle con solerzia per mettere in imbarazzo chi le ha decise -. Esempio, l’ordine del nuovo capo del Pentagono Pete Hegseth di togliere dal sito decine di migliaia di foto e documenti di eroi di guerra e di militari perché troppo ispirati al principio di non discriminazione fra generi e con minoranze. Via, così, foto di neri, di donne, di omosessuali; ovunque c’era la parola ‘gay’. Risultato, è stato accantonato quanto relativo all’Enola Gay, l’aereo che portò la prima bomba atomica su Hiroshima: il nome era quello della madre del pilota, Paul Tibbets.
Secondo l’Ap, sono fino a 100 mila i documenti ‘messi all’indice’, per la stragrande maggioranza riguardanti neri, ispanici, donne. Di cui Hegseth, in privato, quando non sempre è sobrio, avrebbe detto che non dovrebbero neppure votare, figurarsi servire in armi.
