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Israele-Hamas, è tregua: al via la liberazione dei primi ostaggi. Ma la pace è lontana
Di Giampiero Gramaglia
Dopo 470 giorni di guerra, da ieri è tregua tra Israele e Hamas. Dopo l’inizio del cessate-il-fuoco, scattato domenica mattina, con tre ore di ritardo sull’orario annunciato, Hamas ha liberato, come previsto, i primi tre ostaggi, tre giovani donne; e Israele ha scarcerato 90 detenuti palestinesi, tutti donne (69) e minori (21).
Romi Gonen, 24 anni, Emily Damari, 28 anni, e Doron Steinbrecher, 31 anni, sono state rilasciate da Hamas, affidate alla Croce Rossa e da questa trasferite all’esercito israeliano, che, in elicottero, le ha portate in Israele: dopo l’incontro con le loro madri, sono state ricoverate in ospedale, dove vengono controllate le loro condizioni fisiche e psicologiche, che appaiono buone.
La loro liberazione è stata accolta con giubilo delle loro famiglie e con trepidazione dalle famiglie di tutti gli ostaggi ancora trattenuti nella Striscia di Gaza che, nelle prossime sei settimane – quanto è previsto duri la prima fase della tregua -, saranno rilasciati al ritmo di tre o quattro ogni sabato, fino a un totale di 33, sempre in cambio di decine di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane.
Analoghe scene di giubilo ci sono state in Cisgiordania, per il ritorno a casa dei detenuti liberati, mentre nella Striscia di Gaza migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia di persone provavano a tornare a casa, sperando di trovarla ancora o sapendo già di non averne più una. Contemporaneamente, oltre 600 camion di aiuti umanitari entravano nella Striscia: acqua, viveri, medicinali, carburante, generi di prima necessità.
Nelle tre ore di slittamento dell’inizio del cessate-il-fuoco, dovuto a un ritardo, da parte di Hamas, nella consegna dei nomi degli ostaggi che sarebbero stati liberati, l’esercito israeliano ha continuato a causare devastazioni e a fare vittime nella Striscia di Gaza, ormai ridotta a cumuli di macerie in molte aree. Per l’Onu, ci vorranno 14 anni per rimuovere i detriti e 40 miliardi per ricostruire.
Questa è la seconda tregua in una guerra che dura da 470 giorni, innescata dal massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre in territorio israeliano, con oltre 1.200 vittime e oltre 250 persone catturate e portate a forza nella Striscia. Rispetto al cessate-il-fuoco del novembre 2023, durato una settimana e che portò alla liberazione di decine di ostaggi, questo è più articolato – prevede tre fasi successive – e potrebbe rivelarsi definitivo.
Resta da vedere se l’accordo resisterà: rischi di provocazione sussistono, dall’una e dall’altra parte, che siano atti di terrorismo o violenze di coloni, gesti di esasperazione o reazioni militari. E ci sono molti dubbi che la tregua possa trasformarsi in vera pace, almeno nei prossimi quattro anni.
Se l’Israele del premier Benjamin Netanyahu e gli Stati Uniti del presidente Donald Trump rifiutano la soluzione dei due Stati, ciascuno sicuro all’interno dei propri confini, e perpetrano una situazione di occupazione e di soggezione tra israeliani e palestinesi, l’incubo della vendetta e del terrorismo peserà sempre sulla regione.
Sui suoi Appunti, Stefano Feltri scrive: “Trump ottiene la tregua tra Hamas e Israele giusto in tempo per il suo insediamento. Ma la tragedia palestinese non è finita”. In realtà, l’accordo non lo ha fatto Trump, ma non c’è dubbio che la sua elezione lo ha reso possibile, dando a Netanyahu la certezza del sostegno americano (che quel ‘tiramolla’ di Joe Biden non gli assicurava) e accrescendo l’ansia nei palestinesi, con “l’inferno” per Gaza minacciato in caso di mancata intesa e mancata liberazione degli ostaggi. Come se i palestinesi della Striscia l’inferno non lo abbiano vissuto per 470 giorni.
L’accordo, negoziato con la mediazione di Usa, Qatar ed Egitto, comporta un processo fragile, che incontra ostacoli anche nel governo israeliano, con dimissioni di esponenti dell’estrema destra che vogliono tornare a combattere “per riprendere il controllo della Striscia di Gaza”. L’intesa, messa definitivamente a punto venerdì 17, è stata approvata sabato 18, dopo che il comitato dei ministri per gli Affari di Sicurezza Nazionale ne “ha raccomandato l’adozione”, recitava un comunicato, “avendo esaminato tutti gli aspetti del piano, politici, di sicurezza e umanitari, e avendo compreso che esso è funzionale al raggiungimento degli obiettivi della guerra”.
Il premier Benjamin Netanyahu aveva riferito che Israele aveva ricevuto “garanzie inequivocabili”, sia da Biden che da Trump, che se i negoziati sulla fase due dell’accordo falliscono e se Hamas non accetta le richieste di sicurezza di Israele, “l’esercito israeliano tornerà a combattere intensamente a Gaza con il sostegno degli Stati Uniti”.
Biden sostiene che Netanyahu “deve trovare un modo per soddisfare le legittime preoccupazioni” dei palestinesi, “che non hanno un posto dove vivere in modo indipendente”, per garantire a lungo termine la sostenibilità di Israele. Trump parla di “un’intesa epica”, “un primo passo verso la pace”, e fa l’elogio del suo inviato in Medio Oriente Steve Witkoff, che ha appena cominciato a lavorare.