Esteri
Ue: Istituzioni al lavoro con bussola a destra, l’Unione si sgretola
Di Giampiero Gramaglia
La nuova Commissione europea, la seconda presieduta da Ursula von der Leyen, s’è insediata domenica 1 dicembre ed è operativa: una «barca fragile» che «parte senza bussola», scrive, perplesso e preoccupato, Pier Virgilio Dastoli, il massimo conoscitore italiano dei meccanismi e degli ingranaggi europei.
In realtà, la bussola a bordo c’è, ma non funziona bene: spinge a destra, verso un populismo moderatamente sovranista, mentre dovrebbe spingere verso il conferimento di più sovranità all’Unione, sulla politica estera e la difesa, i migranti, il clima.
Tra l’estate e l’inverno, la situazione europea e il contesto internazionale sono drasticamente peggiorati. Nell’Ue, una presidente sostenuta a luglio da un’ampia maggioranza europeista si ritrova a capo di una Commissione appoggiata a novembre da una maggioranza meno europeista e più populista, che si sposta a destra e s’indebolisce, spaccando le coalizioni al governo in vari Paesi, in un gioco di «do ut des» fastidioso tant’è palese che non c’è dietro un progetto, ma solo un calcolo.
Nel mondo, l’elezione e l’imminente insediamento alla presidenza Usa di Donald Trump carica d’incognite e di apprensioni il 2025, mentre il conflitto in Medio Oriente s’è allargato e l’invasione dell’Ucraina rischia di portare vantaggi al presidente russo Vladimir Putin. Per l’Ue, Trump è uno spauracchio che «sta già spaccando» i 27 – osserva Politico –: qualcuno s’illude che il magnate sia «un’opportunità» e altri, come il capogruppo del Ppe al Parlamento europeo Manfred Weber e pure von der Leyen, si trastullano con i giochi della politica mentre «Trump dà fuoco alla casa».
In questo momento, la fragilità della Commissione e l’inadeguatezza della sua base parlamentare paiono quasi l’ultimo dei problemi di un’Europa che ad ogni elezione si sposta a destra, che vede cadere in pezzi i governi dei suoi Paesi tradizionalmente traino e che non è determinata né ad alzare barricate a Ovest né ad allagare i campi a Est. Eunews osserva: «Il Trump 2.0 scuote l’Ue. Le destre sono entusiaste, per i progressisti è un “giorno buio” per il futuro e per l’Europa».
Le istituzioni affrontano nuova legislatura fra divisioni e incertezze
Nel momento stesso in cui le tre istituzioni europee, Commissione europea, Parlamento europeo e Consiglio europeo, partono a ranghi completi e rinnovati per una nuova legislatura di cinque anni, c’è un «problema di aritmetica» non risolto, come scrive Politico ripercorrendo il tortuoso percorso di un’interminabile transizione: le elezioni europee di giugno, i negoziati sulle posizioni di vertice delle istituzioni, poi sulla formazione della maggioranza nel Parlamento, poi sulla composizione della Commissione e le audizioni dei commissari da parte degli eurodeputati; e, infine, la fiducia alla Commissione, con «molti meno voti del previsto – nota argutamente Stefano Feltri –, anche causa le aperture verso Giorgia Meloni» e i suoi conservatori (e, in effetti, i voti aggiunti a destra non compensano quelli perduti a sinistra).
Il Ppe si sposta a destra, sui migranti, sul clima, sul bilancio. La «grande coalizione» europeista non c’è più, ammesso che ci sia mai stata. Socialisti, liberali e verdi sono a vario titolo contro Weber e polemici con il Ppe; il cordone sanitario anti-destre è venuto meno o tocca solo più i Patrioti stretti intorno al premier ungherese Viktor Orbán e il gruppo binario Le Pen – Salvini.
Mentre ciò avveniva a Bruxelles – la maggioranza di giugno si erodeva e quella di novembre nasceva posticcia –, tutto intorno il quadro europeo mostrava crepe nazionali sempre più inquietanti, a partire dai due Paesi guida: il governo francese è sull’orlo della crisi, dopo che il presidente Emmanuel Macron ha prima tentato la scommessa di un voto politico tra giugno e luglio e poi ha praticamente ignorato, nelle scelte a seguire, le indicazioni delle urne; e il governo tedesco, messo in ginocchio dalla crisi dell’economia e dalle ripetute sconfitte nelle elezioni regionali, s’è finalmente risoluto a un voto anticipato il 23 febbraio.
E, intanto, fra i 27, si susseguono i voti che premiano più forze centrifughe che forze centripete, come in Romania, dove la destra sovranista avanza sostenuta dal voto della diaspora. O voti che, come in Irlanda, mettono in stallo i Paesi invece di dare indicazioni precise della volontà popolare.
I titoli di Politico, che segue con grande attenzione le vicende europee, si succedono uno più inquietante dell’altro: la crisi di governo francese, con la caduta del premier Michel Barnier, potrebbe mettere in subbuglio l’eurozona e indebolire l’euro; il prossimo cancelliere tedesco potrebbe essere il più debole di sempre, nonostante il proposito elettorale di Friedrich Merz, leader della Cdu, favorito per l’incarico, di «rendere la Germania di nuovo grande». E una destra romena pro-Russia forte «è una maledizione per l’Ue e per la Nato».
La mappa è variegata e contraddittoria, gli sguardi sono prevalentemente volti a destra. L’Olanda pensa di trasferire in Uganda i suoi migranti, la Polonia vuole sospendere il diritto d’asilo, Germania e altri Paesi sospendono la libera circolazione delle persone, una delle «libertà simbolo» acquisite nell’Unione. E, fuori dai confini dell’Ue, i voti in Moldavia e in Georgia danno esiti opposti ma ugualmente serrati e contestati: il governo di Chişinău vuole proseguire il cammino verso l’Ue, quello di Tbilisi lo sospende fino al 2028, innescando proteste di piazza che evocano quanto avvenne in Ucraina tra il 2013 e il 2014 e che possono rivelarsi prodromi di conflitti.
A Bruxelles e nelle capitali manca una voce che possa fare da controcanto a Trump, come riuscì, sia pure senza acuti, ad Angela Merkel. I leader forti nei loro Paesi hanno piuttosto tendenza a fare comunella con il presidente statunitense che a coagulare un fronte di resistenza europeo.
Primi passi della UvdL 2 su rotte ben conosciute, ma presto abbandonate
Nelle sue prime mosse, la «UvdL2» si rifugia nella sicurezza di riti che, però, rischiano presto d’appartenere al passato: il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa, portoghese, e la capa della diplomazia europea Kaja Kallas, estone, sono stati, il 1° dicembre, a Kiev, con la responsabile dell’allargamento Marta Kos, slovena: hanno incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, discusso come rafforzare il sostegno europeo all’Ucraina a oltre mille giorni dall’invasione russa, parlato del cammino verso l’adesione.
Ma a Kiev e a Bruxelles, lato Ue e lato Nato, ci s’interroga su che cosa succederà dell’Ucraina dopo l’insediamento di Trump. Zelensky, a ogni occasione, chiede appoggi per «la pace giusta», ma sta già proponendo scampoli di linguaggio diversi. L’unico che resta adamantino è il presidente uscente degli Stati Uniti Joe Biden che, forse anche per creare imbarazzi a Trump, prende ora decisioni che appaiono tardive e anacronistiche, sui missili e sulle mine anti-uomo.
All’arrivo a Kiev, Costa, un socialista, dice: «Nel primo giorno in cui siamo in carica siamo qui per dare un messaggio: siamo dalla parte dell’Ucraina, militarmente, finanziariamente e politicamente come dal primo giorno». Kallas, una liberale, aggiunge: «L’Ucraina è un tema che dovremo affrontare a più livelli durante il nostro mandato ed è il più grande problema di sicurezza che attualmente abbiamo. Veniamo qui insieme per mostrare lo spirito di unità del “Team Europe”».
Parole la cui validità andrà verificata fra sei settimane, in funzione della dinamica che la presidenza Trump imporrà alla vicenda ucraina. E Kallas, scelta anche per la sua determinazione anti-russa, potrebbe essere la prima a trovarsi fuori posto in un ruolo dove dovrà forse puntare all’«apaisement» e non al confronto.
Stavolta, von der Leyen, il volto europeo visto più volte in assoluto a Kiev, è rimasta a Bruxelles. La sua Commissione è quella passata con il minore margine al vaglio del Parlamento europeo e ha davanti missioni difficili, fra cui quella di attuare le ricette contenute nel rapporto di Mario Draghi sulla competitività dell’Unione: difficile riuscirci senza mettere in comune risorse. Ai leader dei 27 riuniti a metà novembre a Budapest, l’ex premier italiano l’aveva detto in modo esplicito: «Basta posporre le decisioni… È indispensabile» prima scegliere che cosa fare e poi ragionare «su forme di finanziamenti comuni» per realizzare l’agenda politica europea. Che, al momento, non esiste.