Esteri

Guerre: Cessate-il-fuoco tra Israele-Hezbollah, in Ucraina la Nato non demorde

27
Novembre 2024
Di Giampiero Gramaglia

Il cessate-il-fuoco tra Israele e Hezbollah, entrato in vigore all’alba di mercoledì, poche ore dopo l’annuncio parallelo del presidente Usa Joe Biden e dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, chiude un fronte di conflitto aperto da oltre un anno, ma non riporta la pace in Medio Oriente, perché nella Striscia di Gaza Israele prosegue la sua offensiva.

La tregua è fragile ed è esposta a violazioni dall’una e dall’altra parte: dopo l’annuncio, ma prima dell’entrata in vigore del cessate-il-fuoco, gli Hezbollah libanesi hanno lanciato droni contro “obiettivi militari sensibili” di Tel Aviv e dintorni, per rispondere ai “letali attacchi israeliani” fatti su Beirut e che, nelle 48 ore precedenti, avevano causato decine di vittime civili.

In Ucraina, non c’è, invece, aria di tregua: i russi martellano la notte con missili e droni città e infrastrutture energetiche e industriali; avanzano di centinaia di metri al giorno sul terreno; e, appoggiati dai rinforzi nord-coreani e yemeniti, cercano di riprendere il controllo della porzione di territorio di Kursk occupata dagli ucraini.

Ma il fermento diplomatico intorno al conflitto è intenso, forse come non lo era mai stato. Dopo avere fatto visita al presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump, il nuovo segretario generale della Nato Mark Rutte ha detto che è ora “di cambiare la traiettoria della guerra”: significa rovesciarne l’inerzia, attualmente favorevole ai russi; ma significar anche pensare a come fare cessare le ostilità, in linea con le promesse di pace di Trump.

L’intesa per una tregua in Libano viene letta dai media Usa nella chiave della transizione dei poteri dal presidente uscente al presidente eletto. Il cessate-il-fuoco appare un successo, sia pure tardivo, dell’Amministrazione Biden, e alimenta l’ipotesi che il cambio della guardia tra Biden e Trump possa coincidere con la cessazione delle ostilità nella Striscia, avendo Israele ottenuto – o dichiarando di averlo fatto – i suoi obiettivi.

Nelle analisi dei media, c’è cautela sulla tenuta dell’accordo. In attesa di commenti di Trump, che non sono finora venuti, i giornali riferiscono che il team per la transizione del presidente eletto ha ricevuto “ampie informazioni” sull’intesa dal negoziatore di Biden. Amos Hochstein ha avuto due incontri in merito con la squadra per la sicurezza nazionale di Trump, specie sugli impegni degli Usa per la supervisione della tregua: uno si è svolto poco dopo le elezioni e l’altro nell’imminenza della conclusione delle trattative, quando l’accordo era vicino.

Cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah, gli annunci e i primi effetti
Ufficializzato nella tarda serata – ora italiana – di martedì, in contemporanea a Washington e Gerusalemme, il cessate-il-fuoco è entrato in vigore alle 4 del mattino di mercoledì ora locale, le 3 del mattino in Italia. Colonne di profughi all’interno del Libano si sono subito mosse per ritornare alle proprie case nel Sud del Paese, nonostante gli inviti dell’esercito israeliano ad attendere: si calcola che siano oltre un milione i libanesi che hanno dovuto sottrarsi all’offensiva israeliana.

D’altra parte, anche le decine di migliaia di israeliani sfollati dai loro villaggi nel Nord del Paese sono ansiosi di rientrare nelle loro case, una volta certi del rispetto della tregua e della fine dell’incubo di razzi di Hezbollah sulle loro case.

Biden e Netanyahu hanno parlato al telefono, prima di fare i rispettivi annunci: il premier israeliano ha ringraziato il presidente Usa per l’impegno nel raggiungimento dell’accordo e per la clausola per cui Israele mantiene “libertà d’azione” contro Hezbollah, in caso di violazione dell’intesa.

I ‘salamelecchi’ di Netanyahu a Biden appaiono quasi una presa in giro diplomatica: per 14 mesi, infatti, il premier ha ‘menato per il naso’ il presidente, ignorandone gli appelli alla moderazione e arrivando più volte sull’orlo dell’intesa per una tregua a Gaza, salvo poi fare sempre saltare tutto all’ultimo istante. L’atteggiamento sprezzante di Netanyahu verso Biden e verso i suoi emissari (Antony Blinken, il segretario di Stato, ha fatto una dozzina di missioni a vuoto in Medio Oriente) è una delle cause – non l’unica né la principale – della vittoria di Trump nelle elezioni presidenziali del 5 novembre.

Le motivazioni e le reazioni
“La tregua è un nuovo inizio per il Libano – ha detto Biden -… Hezbollah non potrà più minacciare la sicurezza di Israele”, anche se “non ci saranno truppe degli Usa nel sud del Paese dei Cedri”. Biden ha proseguiro: “Nei prossimi giorni gli Usa lanceranno una nuova iniziativa, con Turchia, Egitto, Qatar, Israele e altri Paesi, per il cessate-il-fuoco a Gaza e la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas” – si calcola siano un centinaio, una metà dei quali sarebbero ancora vivi -.

Da Beirut, il premier libanese Najib Mikati ha commentato l’accordo come “un passo fondamentale verso la stabilità regionale”. Poco prima dell’annuncio della firma dell’intesa, Netanyahu aveva fatto una conferenza stampa spiegando agli israeliani le ragioni della tregua, osteggiata, anche all’interno del suo governo, dagli integralisti religiosi: “Se Hezbollah viola l’accordo e tenta di riarmarsi, colpiremo”.

Agli annunci ufficiali s’è aggiunto il presidente francese Emmanuel Macron: in una nota congiunta, Stati Uniti e Francia si impegnano a garantire il rispetto della tregua.

Secondo fonti di stampa, la guida suprema dell’Iran Ali Khamenei ha dato il via libera alla tregua tra Hezbollah e Israele. Teheran saluta con favore “la fine dell’aggressione del regime sionista contro il Libano” e “sostiene fermamente il governo, la nazione e la resistenza libanese”.

I ribelli Huthi yemeniti, alleati dell’Iran, parlano di “vittoria degli Hezbollah” su Israele, anche se, dall’estate, l’offensiva israeliana ha decapitato l’organizzazione sciita filo-iraniana e ne ha decimato i ranghi a tutti i livelli, limitandone le capacità militari e distruggendone buona parte degli arsenali.

Il quotidiano libanese al Akhbar, vicino agli Hezbollah, scrive che “i libanesi sono vicini alla fine dell’aggressione israeliana, a meno che non ci sia un nuovo piano da parte di Netanyahu”. Come dire che la diffidenza è grande su entrambi i fronti.

Gli ultimi fuochi
E che la situazione resti fluida, esposta a colpi di testa estemporanei e quindi pericolosa, lo provano i razzi lanciati da postazioni Hezbollah verso Israele a cessate-il-fuoco annunciato, ma non ancora operativo, e pure un attacco statunitense contro un obiettivo “legato all’Iran” in Siria – un deposito di munizioni -, in risposta a un attacco compituo contro personale americano. “Gli Stati Uniti non tollereranno nessun attacco contro il loro personale o quello dei loro alleati”, avverte il Centcom, cioè il comando d’area, in un post su X.

Nella serata di martedì, mentre Netanyahu già parlava di tregua, le forze armate israeliane colpivano il cuore della capitale libanese. tra gli obiettivi, le filiali dell’associazione Al-Qard al-Hasan, finanziate da Teheran e utilizzata da Hezbollah come una banca. E solo poche ore prima l’esercito d’Israele aveva raggiunto il fiume Litani, per la prima volta dal 2000, anno in cui Israele si ritirò dalla zona; e l’aviazione ebraica aveva compiuto devastanti raid, oltre che sulla capitale libanese, nel sud e nella valle della Bekaa.

I miliziani del partito di Dio avevano a loro volta martellato il nord di Israele, con ondate di razzi e droni su Haifa e Acri, sulla Galilea e sul centro di Israele – tre razzi a lungo raggio, abbattuti -.

Anche dal punto di vista politico, le ultime ore pre–tregua sono state calde, in Israele, con una serie di consultazioni febbrili del premier prima con i ministri dell’ultra-destra contrari al cessate-il-fuoco e poi in un comitato ristretto al Ministero della Difesa. L’accordo è stato sottoposto all’approvazione solo del gabinetto di guerra, dov’è passato con 10 voti favorevoli e uno contrario, e non del governo e della Knesset, sulla base un po’ speciosa del fatto che questo è un documento procedurale e non una decisione politica – in realtà, Netanyahu ha così evitato confronti rischiosi con i suoi ministri e in Parlamento -.

Gli analisti israeliani notano che l’intesa con il Libano, e soprattutto quella collaterale con gli Usa, forniscono a Israele l’opportunità di distruggere legittimamente le infrastrutture militari che Hezbollah cercasse di ricostituire a sud del Litani e pure di intervenire- entrando con i suoi caccia nello spazio aereo libanese – ogni volta che i miliziani filo-iraniani violassero la tregua.

I contenuti dell’intesa
Perché fare una tregua adesso? Netanyahu ha indicato tre motivi, tutti e tre bellicosi: concentrarsi sulla minaccia dell’Iran; ripristinare gli arsenali militari; separare i fronti e isolare Hamas. L’intesa dovrebbe durare 60 giorni – ed arrivare, dunque, oltre l’insediamento di Trump alla Casa Bianca, che avverrà il 20 gennaio –, anche se tutto “dipenderà da ciò che succederà sul terreno”.

Il nocciolo dell’accordo è la creazione di una fascia di sicurezza profonda circa 30 chilometri dentro il territorio libanese, dal confine con Israele fino al fiume Litani. Questa zona dovrà essere completamente smilitarizzata entro 60 giorni: Hezbollah dovrà ritirare tutti i suoi combattenti e tutte le sue armi a Nord del fiume, mentre Israele dovrà fare rientrare i suoi soldati entro i suoi confini. Per la prima volta, gli Stati Uniti assumeranno un ruolo – non militare – nel monitorare la tregua e guideranno un comitato di supervisione internazionale.

L’architettura di sicurezza prevista è complessa: nella zona cuscinetto potranno operare solo l’esercito regolare libanese – con una forza di almeno “5.000 soldati” – e i caschi blu della missione dell’Onu in Libano (Unifil). Il comitato di supervisione internazionale guidato dagli Usa rappresenta un tentativo di superare i limiti dell’accordo del 2006, quando dopo la precedente guerra tra Israele e Hezbollah, la sola presenza dei caschi blu non seppe impedire all’organizzazione sciita di ricostruire il proprio arsenale militare nel Sud del Libano, a distanza di tiro dei missili su Israele.

Il piano definisce zone di competenza precise: l’area a Nord del Litani sarà sotto controllo libanese, mentre la fascia di 30 chilometri tra il fiume e il confine verrà pattugliata congiuntamente dall’esercito libanese e dalle forze Unifil. L’esercito israeliano dovrà rimanere nei propri confini, mantenendo solo capacità di osservazione a distanza.

La complicazione del mandato di cattura per Netanyahu
L’accordo sulla tregua è maturato mentre i ministri degli Esteri del G7 erano riuniti a Fiuggi: l’ultimo loro incontro previsto sotto presidenza di turno italiana. A fine lavori, il segretario di Stato Usa Antony Blinken ha detto che l’intesa aiuterà a raggiungere la fine della guerra anche a Gaza. E il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani ha espresso “l’orgoglio” del Gruppo di “avere dato un contributo determinante a questo importante risultato per la pace in Medio Oriente”.

La fine della guerra a Gaza è un obiettivo anche di Netanyahu, ma solo dopo che nello Studio Ovale siederà Trump, da cui il premier israeliano spera maggiore ‘generosità’ nei suoi confronti di quella che poteva aspettarsi da Biden.

C’è pure da gestire il mandato di cattura nei confronti di Netanyahu e dell’ex ministro della difesa israeliano Yoav Gallant, oltre che di leader di Hamas, dalla Corte penale internazionale dell’Aja, per crimini di guerra e contro l’umanità nel conflitto a Gaza.

In quasi 14 mesi di guerra, il numero delle vittime palestinesi ha superato le 44 mila, in gran parte civili, bambini, donne, anziani. Il conflitto venne innescato dagli attacchi terroristici del 7 ottobre 2023 di Hamas e altre sigle palestinesi in territorio israeliano, che fecero circa 1200 vittime e portarono alla cattura di circa 250 ostaggi.

A Fiuggi, il capo della diplomazia europea Josep Borrell, al passo d’addio – era la sua ultima sortita nel ruolo –, è stato chiaro in merito: “Gli europei devono seguire e applicare le decisioni della Corte: non è qualcosa che si può scegliere di fare quando è contro Putin – il presidente russo è stato colpito da analogo mandato nel marzo 2023, ndr – e di ignorare quando è contro Netanyahu”. Solo gli Usa fra i Paesi del G7 non riconoscono la Corte e non sono quindi tenuti a rispettarne gli ordini.

A proposito di Netanyahu, la commissione civile israeliana che indagava sul massacro del 7 ottobre ha concluso: “Il premier israeliano ha una responsabilità personale nel fallimento della risposta all’attacco di Hamas”. E il capo dell’opposizione Yair Lapid ha chiesto se “il premier sapesse che le persone a lui più vicine, nel suo ufficio, hanno ricevuto una grande quantità di denaro dai sostenitori di Hamas in Qatar”. Il riferimento è a Yonatan Orich e Shmulik Einhorn, coinvolti nella campagna per migliorare l’immagine del Qatar in vista dei Mondiali del 2022, presentandolo come un Paese “che aspira alla pace”, nonostante il suo supporto finanziario a Hamas.

L’Occidente conferma il sostegno a Kiev, ma non muove foglia che Trump non voglia
Il G7, l’Ue, la Nato, gli Usa, le singole capitali confermano il sostegno dell’Occidente all’Ucraina, ma, in realtà, ormai non si muove foglia che Trump non voglia: l’auspicio del Parlamento europeo perché i 27 rafforzino l’assistenza “politica, finanziaria, militare e umanitaria” e la disponibilità per un maggiore coinvolgimento anche militare  espressa dal presidente francese Emmanuel Macron e dal premier britannico Keir Starmer fluttuano nell’aria, ma tutto pare rimandato a dopo l’insediamento a Washington del presidente eletto.

Le Monde scrive che “sono state riattivate le discussioni sull’invio di truppe occidentali e di società di difesa private sul suolo ucraino”, nel quadro di consulti fra Parigi e Londra sulla cooperazione in materia di difesa, in particolare con l’obiettivo di creare un nocciolo duro di alleati europei focalizzato sull’Ucraina”. Il ministro degli Esteri italiano Tajani su questo punto è netto: “Noi non invieremo nessun soldato a combattere in Ucraina”.

Se l’Europa attende, la Russia agisce: risponde sperimentando un missile ipersonico ai missili Usa lanciati dagli ucraini sul territorio russo; e schiera nell’area di Kursk, oltre a truppe nord-coreane, anche milizie yemenite. Obiettivo: ricacciare gli ucraini oltre frontiera entro il 20 gennaio, così che Kiev non abbia territori da scambiare con quelli occupati da russi, al momento della trattativa.