C’è una costante, una regolarità che ci accompagna da quasi un trentennio. Nei momenti in cui il processo di cambiamento frena e le riforme non corrono veloci, quando insomma sembra dominante la prospettiva di uno stallo politico (anche nelle forme peculiari che vedremo tra poco), allora si accende lo scontro verbale, prende forza la rissa e lo scontro di parole.
Come se il volume, il livello dei decibel negli scambi di accuse, e in qualche caso di insulti, potesse attenuare nei cittadini la sensazione di un cambiamento non adeguato, o comunque non altrettanto veloce rispetto ai desideri e alle speranze degli elettori.
Stavolta in Italia il rischio è particolarmente elevato anche in ragione della palese non competitività sul piano elettorale delle opposizioni, le quali sono talmente deboli da ritenere di avere davanti a sé una sola strada: urlare, accusare il governo di ogni nefandezza, evocare il fascismo e perfino l’olio di ricino (è successo anche questo, con sprezzo del ridicolo). Le teste fredde a sinistra, se ne è rimasta qualcuna, sanno che si tratta di un errore drammatico: dovrebbe essere chiaro che queste chiassate non attirano più l’elettorato progressista deluso, e che quindi occorrerebbe un lungo e incerto lavoro di ricostruzione programmatica e politica. Ma questa sarebbe un’impresa non breve e difficile: e allora si cerca la scorciatoia della rissa.
Però, dall’altro lato, non devono cascarci governo e maggioranza, che invece hanno il consenso e – pur con tutti i limiti che conosciamo, a partire da vincoli europei fastidiosi – anche le leve per innescare il cambiamento. È difficile realizzarlo? Certo. Può essere prudente darsi una prospettiva pluriennale per vedere novità significative su tasse-sicurezza-immigrazione? Qui ne siamo convinti da sempre: le bacchette magiche non esistono.
Ma il focus anche comunicativo del governo deve essere su questo: sul “fare”, non sul “dire”, e meno che mai sul battibeccare con opposizioni moribonde.