USA2024
Usa 2024: – 7, una scelta cruciale dopo una campagna condita di violenze e intimidazioni
Di Giampiero Gramaglia
Gli elettori che vanno alle urne per Usa 2024 devono scegliere fra diverse visioni degli Stati Uniti proposte dalla candidata democratica Kamala Harris e da quello repubblicano Donald Trump. L’esito del voto – avverte l’Ap – dirà quale percezione il Paese ha di se stesso e determinerà “come il Paese sarà visto nel Mondo, con ripercussioni nei decenni a venire”.
Gli elettori sembrano in qualche misura consapevoli dell’importanza del voto e ne paiono coinvolti: oltre trenta milioni hanno già fatto la loro scelta, presentandosi ai seggi aperti per l’early voting, cioè il voto anticipato, o spedendo per posta la loro scheda. Vuol dire che uno su cinque di quanti saranno i partecipanti allo scrutinio – prevedibilmente tra i 150 e i 160 milioni – si è già espresso. Una percentuale che potrebbe salire a uno su tre nella settimana entrante.
Nonostante Trump e i repubblicani vedano come fumo negli occhi il voto anticipato, e lo critichino apertamente, preparandosi a farne motivo di contestazione del risultato, se non dovessero vincere, alcuni degli Stati in bilico, la Georgia, la North Cariolina, il Michigan, hanno stabilito record d’affluenza alle urne nel loro primo giorno di early voting, con file ai seggi.
Un altro cavallo di battaglia delle future contestazioni di Trump e dei repubblicani, sempre se dovessero perdere, è il voto dei ‘non cittadini’, cioè l’accusa che i democratici ammettano alle urne immigrati che non ne hanno diritto: i casi comprovati si contano nel tempo sulle dita di una mano, ma la propaganda ‘trumpiana’ li gonfia a dismisura.
A fronte dell’importanza della posta in gioco, la campagna, specie quella repubblicana, non ha avuto toni molto elevati. Harris porta sul palco con sé Beyoncé e Michelle Obama, Bruce Springsteen e Spike Lee, icone talora discutibili della cultura e della società, Trump si circonda di cospirazionisti e di adulatori e affida l’appello a votarlo alla leggenda del wrestling, uno dei suoi sport preferiti, forse perché è tutto finto, Hulk Hogan, o al negazionista del Covid e transfuga dalla sua propria famiglia Robert F. Kennedy jr.
È accaduto ieri sera al Madison Square Garden di New York, dove un Trump tracotante ha speso tempo elettoralmente inutile – lo Stato e la Grande Mela sono dichiaratamente democratici – nell’ambizione di riprendersi, lui ‘re di New York’, “quanto ha creato” – parole del figlio maggiore Donald jr -.
C’erano pure la moglie Melania – presenza rarissima in questa campagna e talora critica del marito, ad esempio sull’aborto – e l’ormai suo prezzemolo Elon Musk, oltre al suo vice JD Vance. Dentro l’arena, decine di migliaia di sostenitori: una marea rossa dove qualcuno, forse senza percepirne l’ironia, impersona il dittatore nord-coreano Kim Jong-un, quasi che il buon rapporto tra lui e Trump sia motivo di vanto o di speranza. Fuori migliaia di manifestanti anti-Trump.
Difficile pensare che l’evento a New York domenica sera sposti i disequilibri di voto nello Stato. Trump sciorina il suo repertorio, il ritorno del sogno americano – lui che lo trasforma in incubo – e della grandezza americana, il taglio delle tasse, le bollette energetiche “dimezzate”, la liberazione dall’occupazione dei migranti; la fine delle guerre; e attacca Harris, che ha distrutto il Paese e che è così incompetente che “i nostri nemici vogliono che vinca”.
In realtà, l’impressione è che quelli che sono, o che dovrebbero essere, i rivali degli Usa, la Russia, la Cina, la Corea del Nord, facciano il tifo o almeno mestino per Trump, mentre quelli che sono, o che dovrebbero essere, gli amici, cioè gli europei, nella loro netta maggioranza, temano Trump.
C’è l’ansia che il clima di contrapposizione della campagna e la polarizzazione delle posizioni sfocino, dopo il voto, in violenza politica. Negli Stati Uniti, dopo la sommossa sobillata da Trump del 6 gennaio 2021, ci sono stati almeno 300 casi di violenza politica; e già oltre 50 quest’anno. Qualche esempio: a York, in Pennsylvania, un uomo ha aggredito un gruppo di persone pro-Harris, colpendo con un pugno in testa un uomo di 74 anni; in Michigan, invece, un soggetto ha investito e ferito con il suo Suv un uomo di 81 anni che stava mettendo in giardino un cartello pro-Trump.
I dati citati sono stati raccolti e verificati dalla Reuters. L’aumento della violenza è il più rilevante dagli Anni 70, quelli delle Pantere Nere e dell’esercito di liberazione simbionese e dei disordini di Los Angeles. La causa è l’accentuarsi delle tensioni innescate da figure polarizzanti come Trump. E gli esperti avvertono che l’atmosfera tesa di questi ultimi giorni di campagna elettorale potrebbe condurre a nuove violenze, soprattutto negli Stati in bilico.
Secondo l’Ap, i giudici di Washington che processano e condannano i facinorosi del 6 gennaio – centinaia sono finiti in carcere e Trump li considera patriotti e promette di liberarli – temono che l’esito delle elezioni preluda a ulteriori violenze: i ‘trumpiani’ continuano ad alimentare le teorie false e cospirative che incendiarono il clima nel 2020/’21.
E gli addetti ai seggi subiscono pressioni e intimidazioni e molti per paura abbandonano l’incarico. In Nevada, il turnover di supervisor degli scrutatori è quasi incessante. La tattica ‘trumpiana’ pare mirata, più che a garantire la regolarità del voto, a scoraggiare soprattutto le minoranze, più esposte e più fragili, dall’andare a votare.
Vincere con la paura è anche questo. Harris contrappone speranza. Che richiede, però, coraggio.