Esteri
Ue a pezzi: le crisi di Francia e Germania pesano sull’inizio del von der Leyen 2
Di Giampiero Gramaglia
Cade tutto a pezzi: il titolo di Politico si riferisce alla Germania, dopo le elezioni di inizio settembre in due lander dell’Est e le affermazioni delle estreme, la nera di Afd e la rosso-bruna dell’Alleanza, la Buendnis. Ma il titolo si adatta all’Unione europea nel suo insieme: l’Ue s’avvia alle prime battute della sua nuova legislatura con i suoi due Paesi chiave, la Germania e la Francia, in mezzo al guado di crisi politiche, economiche e di governo imprevedibili negli sviluppi; con altri Paesi impantanati in trattative per la formazione di un esecutivo – Belgio e Bulgaria -; e con incertezze sugli equilibri di potere nella nuova Commissione e sulla coesione della maggioranza europeista formatasi a luglio nel Parlamento di Strasburgo.
Francia e Germania: le paratie stagno contro l’estrema destra fanno acqua
Eppure, in questo bailamme, la Francia, che due mesi dopo il voto politico ha un premier designato, l’esperto centrista ed europeista Michel Barnier, 73 anni, ma non ha ancora un governo, trova tempo per accapigliarsi se lasciare, o meno, sulla Torre Eiffel il logo delle Olimpiadi: la sindaca socialista Anne Hidalgo, che si tuffò nella Senna per il successo dei Giochi, lo vuole tenere; la sua rivale all’orizzonte 2026, Racida Dati, ministro della Cultura uscente e presidente del X arrondissement, quello dove sorge la Torre Eiffel, lo vuole togliere.
Una riprova che discutere di quisquiglie quando i problemi sono ben altri non è una specialità solo italiana. Con Barnier, a Palazzo Matignon arriva una figura di peso dei conservatori neo-gollisti, cioè un esponente della ‘destra repubblicana’, in barba alle aspirazioni delle sinistre di avere la guida dell’esecutivo forti del successo elettorale.
Ma il primo ministro designato deve mettere insieme i cocci di un quadro politico frammentato e poi varare una legge di bilancio complicata dai vincoli europei: la sinistra ‘insoumise’ strepita e grida alla vittoria rubata; invece, l’estrema destra resta sorniona alla finestra e giudicherà il governo in base alle sue prestazioni. I leader del Rassemblement National Marine Le Pen e Jordan Barella, per ora, non si mettono di traverso, sperando che la ‘conventio ad excludendum’ nei loro confronti s’attenui.
L’esperienza di negoziatore maturata come ‘Mister Brexit’ dell’Ue, in dialogo con i britannici, verrà utile al ‘vecchio’ Barnier: il più anziano premier della Quinta Repubblica succede al più giovane, Gabriel Attal, 33 anni quando s’insediò. Ma c’è chi è convinto che Barnier, ex ministro degli Esteri e degli Affari europei, ex commissario europeo al mercato interno, durerà poco, perché il presidente Emmanuel Macron, nonostante tutte le sue assicurazioni contrarie, non arriverà a fine mandato, nella primavera 2027.
Come, in Germania, potrebbe non arrivarci il cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz, il cui potere è eroso, voto dopo voto, da risultati che rendono manifesta l’impopolarità della coalizione rosso-giallo-verde. Le elezioni in Turingia e Sassonia hanno anche avuto riflessi al di fuori dell’Ue: l’avanzata di partiti in diversa misura filo-russi galvanizza il Cremlino, proprio mentre l’aggressività del presidente russo Vladimir Putin induce persino la Svizzera a ripensare la propria neutralità, progettando cooperazioni rafforzate con Ue e Nato.
Il venire meno, in Germania e in Francia della tenuta delle paratie stagno che tengono, o tenevano, l’estrema destra lontana dal potere crea malesseri e preoccupazioni anche nei Palazzi di Bruxelles. Chi s’illudeva che il secondo mandato di Ursula von der Leyen a capo della Commissione europea, la ‘UvdL2’, sarebbe stato più agevole del primo, segnato dalla pandemia e dalle guerre, potrebbe ricredersi: «il peggio deve ancora venire», scrive ancora Politico che, di questi tempi, non fa prova di ottimismo.
Commissione europea: slitta l’annuncio della distribuzione dei portafogli
La presidente von der Leyen doveva presentare la composizione della sua seconda Commissione e la distribuzione dei portafogli ai presidenti dei gruppi del Parlamento europeo questo mercoledì 11 settembre. Ma la scadenza è slittata alla prossima settimana: i tasselli del mosaico non sono ancora tutti collocati.
La richiesta di UvdL di potere scegliere per ogni Paese tra un uomo e una donna non è stata accolta dai governi dei 27: l’Esecutivo europeo 2024-2029 è nettamente maschile – i due terzi sono uomini -, più del precedente, mentre la presidente ambiva alla parità di genere. Il commissario designato sloveno, Tomaz Vesel, s’è addirittura fatto da parte, perché il suo Paese designasse una donna.
Nella ‘UvdL 2’, ci sono ex premier ed ex ministri, parlamentari europei, figure dell’informazione e della televisione, ma, nell’insieme, il profilo politico della nuova Commissione appare meno robusto di quello della precedente. L’Italia non contribuisce a rialzarlo, avendo avvicendato un ex premier con un ex ministro.
Anticipazioni sulla distribuzione dei portafogli, visti come «più mirati agli interessi dei singoli Paesi che non all’agenda europea nel suo insieme» – e questo non stupisce- suscitano perplessità e preoccupazioni in ambienti europeisti. Se ne rende interprete la professoressa Cristina Vanberghen, studiosa e analista dell’Istituto universitario europeo di Firenze. Mentre l’ipotesi che vice-presidenze e portafogli importanti tocchino a Paesi e a governi che non sono nella maggioranza che ha dato l’indispensabile investitura a von der Leyen crea malumori politici, specie fra i socialisti e i liberali – i popolari sono egemoni nella nuova Commissione, con più della metà dei posti –. Il che rende delicata proprio la posizione di Fitto.
Commissione europea: l’agenda e le guerre
La lista delle cose da fare nella legislatura agli albori è lunga e pesante: c’è da attuare il Green Deal, «senza dimenticare le esigenze delle imprese», come ora chiosano tutti; c’è da dotarsi d’una politica delle migrazioni, da rivedere la politica agricola, da completare l’Unione bancaria. Ma, soprattutto, c’è un disperato bisogno di una politica estera e della difesa europea: bisogno che potrebbe essere drammaticamente acuito dall’esito delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti il 5 novembre.
Invece, mentre le guerre incombono ai confini a Est e a Sud, e il conflitto in Medio Oriente innesca fermenti di terrorismo nell’Unione, i 27 restano alle prese con litigi da cortile, ad esempio sui visti che l’Ungheria vuole concedere a russi e bielorussi e sulle restrizioni che vuole imporre ai rifugiati ucraini. E la pista ucraina nell’esplosione del Nord Stream, nell’estate del 2022, avvelena i rapporti tra Polonia e Germania: Varsavia si rifiuta di collaborare con Berlino per l’arresto di un cittadino ucraino residente in Polonia sospettato di essere responsabile del sabotaggio.
Più seria è la questione se consentire o meno all’Ucraina di condurre attacchi in territorio russo usando armi europee: il capo della diplomazia europea Josep Borrell è favorevole e chi gli succederà a novembre, l’ex premier estone Kaja Kallas, lo è più di lui; ma i distinguo fra i 27 sono numerosi e articolati; e la Germania stringe i cordoni della borsa degli aiuti all’Ucraina, citando vincoli di bilancio.
Però, dell’atteggiamento verso l’Ucraina si potrà parlare con conoscenza di causa migliore solo dopo le elezioni negli Usa il 5 novembre: su armi e aiuti, la parola di Washington è determinante.
Un segnale di ottimismo, sul dinamismo dell’Unione, può venire dalla presentazione del rapporto sulla competitività europea dell’ex premier italiano ed ex presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, ammesso che questo documento non sia destinato a fare la fine di quello presentato prima dell’estate sul completamento del mercato unico da un altro ex premier italiano, Enrico Letta: finire in un cassetto e lì restare.
Draghi è preoccupato dalla mancanza di competitività tecnologica della ‘vecchia Europa’, senza cui – avverte – non c’è né innovazione né competitività: «Per me, è un incubo». Dovrebbe esserlo pure per i leader dei 27: von der Leyen lo prende sul serio – parlando in luglio al Parlamento, pronunciò 22 volte la parola competitività -; i governi probabilmente esiteranno a prendere di petto il problema che richiese investimenti colossali e, quindi, la messa in comune di fette di debito, ricetta indigesta per molti Paesi, nonostante, o forse a causa, dell’esperienza del Next Generation Eu, che in Italia si legge Pnrr. Anche qui, Politico ci illumina di ottimismo: «Il piano di Draghi per aggiustare un’Europa rotta appare già impossibile da realizzare: è pieno di buoni propositi, ma è politicamente impraticabile».