Esteri
Guerre: Medio Oriente e Ucraina, leader che pensano alla politica, non alla pace
Di Giampiero Gramaglia
Raid nella Striscia di Gaza e rastrellamenti in CisGiordania, con vittime a bizzeffe; sei ostaggi israeliani uccisi a Gaza, quando stavano per essere liberati: orrori che fanno fremere il Mondo, proteste che scuotono Israele. Ma “Netanyahu vuole ancora più guerra”, è il titolo icastico del Washington Post, che sintetizza la posizione del premier israeliano e del suo governo. Neppure Hamas vuole la pace: forse una tregua, per riorganizzarsi.
Una soluzione al conflitto in Medio Oriente non è vicina, nonostante le pressioni – ormai spuntate – del presidente Usa Joe Biden e della sua Amministrazione, E non è vicina neppure in Ucraina, dove un centro d’istruzione per reclute a Poltava, lontano dalla linea del fronte, diventa bersaglio di uno degli attacchi russi più letali dell’intero conflitto: due missili fanno oltre 50 vittime, quasi duecento feriti.
Sia Benjamin Netanyahu sia il presidente ucraino Volodymyr Zelensky paiono più attenti alla loro sopravvivenza politica che alla tutela di vite umane. Il premier israeliano ha un ‘botta e risposta’ con Biden, che lo accusa di “non fare abbastanza” per liberare gli ostaggi; e progetta di ritornare negli Usa prima del voto del 5 novembre, a fare campagna per il ‘suo’ candidato Donald Trump.
Netanyahu vede nell’eventuale ritorno di Trump alla Casa Bianca un’ancora di salvezza per sé, prima ancora che una garanzia per Israele. Una vittoria della candidata democratica Kamala Harris potrebbe, invece, preludere a un irrigidimento di Washington sulla questione palestinese, come c’è appena stato da parte del governo laburista britannico, che ha bloccato vendite di armi a Israele.
Il presidente ucraino è impegnato in un ampio rimpasto del suo governo, che coinvolge, fra gli altri, il volto più noto, il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba. Prima di dare le dimissioni, come molti suoi colleghi, con una ritualità quasi sovietica, Kuleba, in un’intervisya alla Cnn, fa sapere che l’Ucraina sta finalizzando gli accordi con i suoi partner per la revoca dei divieti di lanciare attacchi in profondità contro obiettivi militari in territorio russo con armi occidentali.
Intanto, il presidente russo Vladimir Putin si fa beffe del mandato di cattura emesso contro di lui dalla Corte di Giustizia internazionale dell’Aia e va in visita in Mongolia: le autorità di Ulan Bator dovrebbe arrestarlo, ma si guardano bene dal farlo – il loro Paese è totalmente dipendente dall’energia russa.
Guerre: Israele-Hamas, orrori, proteste, rischi escalation e allargamento
In Medio Oriente, il rischio di un’escalation e di un ampliamento del conflitto tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza non è affatto sventato. Israele, che denuncia il rischio di un altro 7 ottobre, stavolta ad opera dei palestinesi della CisGiordania, colpisce preventivamente, come fa a Nord contro gli Hezbollah in Libano. La risposta dell’Iran all’uccisione a Teheran il 31 luglio del leader di Hamas Ismail Haniyeh non c’è ancora stata, ma va preventivata, e le punture di spillo, leggasi lanci di missili, nel Golfo tra gli Huthi e chi difende la libertà di navigazione si susseguono.
Gli Stati Uniti, con il Qatar e l’Egitto, hanno lavorato a una versione finale “da prendere o lasciare” di un’intesa fra Israele e Hamas, che prevede la liberazione degli ostaggi e una tregua nelle ostilità. Ma i comportamenti delle due parti rendono improbabile l’accordo. Washington sostiene che questo sarebbe il momento migliore per farlo, ma israeliani e palestinesi diffidano dell’ottica americana: è vero che un’intesa darebbe una spinta alla candidata democratica alla Casa Bianca Kamala Harris, ma non sarebbe necessariamente nell’interesse delle leadership israeliana e palestinese.
La scoperta dei corpi di sei ostaggi uccisi da Hamas, fra cui quello di un cittadino statunitense, Hersh Goldberg-Polin 23 anni, ha reso più disperata la trattattiva. Tutti i sei ostaggi erano stati sequestrati al ‘rave party’ lungo il confine israeliano il 7 ottobre: i loro corpi sono stati recuperati sabato 31 agosto, ammazzati poco prima che i militari israeliani li raggiungessero e li liberassero.
Domenica, e ancora lunedì, manifestanti hanno invaso le strade di Israele e i sindacati hanno indetto uno sciopero generale, poi bloccato dalla magistratura, perché politicamente motivato: le famiglie degli ostaggi e quanti le sostengono cercano di intensificare le pressioni sul premier e sul governo perché raggiunga un’intesa con Hamas che consenta il ritorno a casa degli ostaggi tuttora detenuti e in vita – sarebbero un centinaio, secondo il quotidiano Haaretz; ma non più di una settantina i vivi, secondo altre fonti -.
Prima di trovare i sei ostaggi morti, i militari israeliani erano riusciti a recuperare un ostaggio vivo: Kaid Farhan al-Qadi, 52 anni, esponente della minoranza arabo-beduina, era addetto alla sicurezza di una fabbrica d’imballaggi in un kibbutz quando era stato sequestrato. Al-Qadi è stato ricoverato in ospedale per controlli, ma, al momento della liberazione, appariva in discrete condizioni: è stato il primo ostaggio recuperato vivo, in quasi 11 mesi di conflitto, nel dedalo di tunnel sotto Gaza.
A Gaza, intanto, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi e l’Oms, l’organizzazione per la sanità, hanno lanciato, domenica, una campagna di vaccinazione di massa contro la polio, che dovrebbe interessare 600 mila bambini. Israele ha creato corridoi umanitari per il personale sanitario addetto all’operazione e ha designato aree sicure dove somministrare i vaccini. Ma gli incidenti di cui sono vittime operatori umanitari restano all’ordine del giorno: la scorsa settimana, militari israeliani hanno colpito un convoglio organizzato da una Ong Usa, uccidendo quattro palestinesi.
Israele ha anche condotto la più letale operazione nei Territori dall’inizio della guerra nella Striscia di Gaza, uccidendo almeno 10 persone, fra cui – dice l’esercito israeliano – un comandante militare locale. Azioni definite anti-terrorismo sono state effettuate nella notte tra sabato e domenica in aree della West Bank, fra cui la città di Jenin. Residenti nella regione riferiscono di sorvoli di droni e d’avere visto mezzi corazzati nelle strade e militari israeliani compiere arresti casa per casa.
Il governatore di Jenin Kamal Abu al-Rub segnala che la città è stata, per qualche ora, circondata. E il governo israeliano parla di operazioni per sradicare gruppi terroristici e fa capire che la campagna nei Territori in atto da giorni potrebbe conoscere una significativa escalation: l’intelligence teme che Hamas voglia colpire nei Territori per mettere in difficoltà l’Autorità nazionale palestinese.
La scorsa settimana, azioni definite “preventive” di un potenziale imminente attacco sono state anche condotte nel Sud del Libano, contro postazioni e installazioni degli Hezbollah.
Il Forum delle famiglie degli ostaggi e dei dispersi ha rinnovato proteste e manifestazioni, riuscendo a coinvolgere centinaia di migliaia di persone, a Gerusalemme, Tel Aviv, Cesarea e altrove, dopo l’uccisione dei sei ostaggi. La richiesta a Netanyahu è di raggiungere un’intesa per la liberazione degli ostaggi: la risposta del premier è confermare condizioni a priori inaccettabili per Hamas e ribadire una linea d’intransigenza su tutti i fronti.
Guerre: Israele-Hamas, gli echi internazionali
L’Onu parla di “esecuzione sommaria” e chiede un’indagine indipendente: “Siamo inorriditi – dice – dalle notizie secondo cui gruppi armati palestinesi hanno giustiziato sommariamente sei ostaggi israeliani, il che costituirebbe un crimine di guerra”.
Uno dei sei ostaggi, Hersh Goldberg-Polin, 23 anni, era anche cittadino americano. I suoi genitori, ad agosto, erano intervenuto alla convention democratica: la madre era collassata sul palco, aggrappandosi al marito, mentre tutta l’arena scandiva “Liberateli tutti!”. Adesso, il Dipartimento della Giustizia di Washington ha aperto un’inchiesta sulla sua uccisione come “atto di terrorismo” e ha messo sotto accusa Hamas per le stragi del 7 ottobre, nelle quali, fra le 1.200 vittime, c’erano decine di israeliani con nazionalità anche americana. Fra gli esponenti palestinesi sotto accusa, ci sono Yahya Sinwar, il leader di Hamas, e cinque altri comandanti dell’organizzazione terroristica.
Domenica, il presidente Biden e la sua vice Harris hanno tenuto un consulto, nella Situation Room della Casa Bianca, per “discutere gli sforzi per arrivare a un accordo che garantisca tregua e rilascio degli ostaggi”.
Intanto, sul suo social Truth, Trump incolpa Biden e Harris per l’uccisione dei sei ostaggi israeliani, assassinati da Hamas – scrive – “a causa di una totale mancanza di forza e leadership americana”. “Non fraintendete: questo è accaduto – nota Trump su Truth -, perché la compagna Kamala Harris e il corrotto Joe Biden sono dei pessimi leader. Gli americani vengono massacrati all’estero, mentre Kamala … inventa bugie e Biden dorme in spiaggia …. Hanno le mani sporche di sangue!”. Su X, in un altro post, l’ex presidente afferma: “Ci stiamo avviando verso una terza guerra mondiale … Cerchiamo di evitarla”.
Critiche all’operato del duo Biden – Harris vengono anche dalla sinistra, in attesa che riprenda, nelle Università statunitensi, dopo la pausa estiva, il fermento pro-palestinese. Bernie Sanders, autorevole senatore, indipendente, ma vicino ai democratici, spera che Harris prenda le distanze dalla politica di Biden per Gaza e rinunci a concedere ulteriori aiuti al governo israeliano, a meno che esso non cambi radicalmente le sue politiche nei confronti dei civili palestinesi. “Spero – dice Sanders – che si arrivi a un punto in cui il premier Netanyahu e il suo governo estremista di destra, che hanno avuto decine di miliardi di dollari di aiuti dagli Stati Uniti, non continuino a riceverne, salvo un cambio radicale delle loro politiche verso il popolo palestinese a Gaza e in Cisgiordania”.
Un esempio di quanto può accadere lo dà la Gran Bretgana del governo laburista di Keir Starmer, che sospende l’export di alcune armi verso Israele perché potrebbero essere usate “in violazione delle leggi internazionali”: la misura non è un embargo e ha un impatto militare limitato, ma manda un chiaro segnale al Governo Netanyahu. La Gran Bretagna è uno di quei Paesi da sempre alleati d’Israele, ma estremamente preoccupati dalle conseguenze di un conflitto di cui non s’intravvede uno sbocco e che ha già fatto oltre 40 mila vittime palestinesi.