Cultura
Diritto e dovere di cronaca – Il complesso rapporto tra comunicazione e giustizia
Di Elisa Tortorolo
Proponiamo un esperimento: si prenda un giornale qualsiasi e lo si sfogli fino al racconto di un fatto di cronaca nera. Qual è la probabilità di imbattersi in titoli roboanti, narrazioni morbose e ricostruzioni parziali? Piuttosto alta. All’ordine del giorno, resoconti sensazionalistici e spettacolarizzazione del dolore. Se il fatto avviene in piena estate, poi, ancora meglio: un riempitivo condito da dettagli scabrosi è sempre utile e tira di più.
Ma questo tipo di lavoro scandalistico è davvero necessario ai fini di un’inchiesta e di un processo? Perché in Italia il diritto di cronaca si traduce immancabilmente in dovere di informare il pubblico su qualsiasi dettaglio, anche quando irrilevante?
Alcune vicende tornate alla luce in questi giorni sono buoni esempi per riflettere sul tema.
E’ di recente uscita il documentario su Yara Gambirasio pubblicato su Netflix. A prescindere o meno dalla colpevolezza di Massimo Bossetti, la storia di queste indagini e del processo ci racconta, nell’ordine, che: i carabinieri hanno fornito ai giornali dei video falsificati; sono stati commessi e nascosti errori e imbrogli nelle analisi del DNA; la PM ha rivelato all’accusato le relazioni della moglie, irrilevanti per l’indagine; l’accusa ha presentato informazioni parziali e ingannevoli sulle celle telefoniche, poi ha elencato i titoli dei video porno visitati online dalla moglie dell’accusato; presunti contenuti pedopornografici trovati nel computer dell’accusato non sono mai stati riscontrati, nonostante i racconti dei giornali.
Stesso discorso vale per la notizia che campeggia sulle prime pagine dei giornali dell’ultimo periodo: la divulgazione delle conversazioni tra Filippo Turetta e suo padre nei giorni seguenti il suo ritrovamento. La gogna pubblica che ne è seguita era scontata e l’indignazione conseguente ragionevole. Eppure, anche in questa occasione bisogna chiedersi se pubblicare delle intercettazioni di un genitore che da un giorno all’altro si trova costretto a vivere, suo malgrado, un’atroce sofferenza, possa ergersi a naturale esplicazione del diritto di cronaca o sia semplice voyeurismo. Del resto, lo stesso legale della famiglia Cecchettin ha parlato di ‘irrilevanza’ di tali colloqui: “Già è una vicenda dolorosa”, ha detto. “Così non si fa altro che aggiungere inutilmente dolore a dolore”.
Si potrebbe proseguire. Tutti ricordiamo le scene del marzo scorso, con file di gente sotto la pioggia fuori dal Tribunale di Brescia ad aspettare l’esito delle udienze di revisione del processo per la strage di Erba – forse uno tra i primi casi in cui il ruolo dei media è stato quanto mai decisivo. La calca di persone in attesa è la conseguenza naturale di un iter giudiziario che – tempo addietro e a processo di primo grado nemmeno iniziato – vedeva gli assassini (o presunti tali) già condannati in via definitiva dai talk show, dalle riviste patinate, da libri con titoli altisonanti pubblicati a tempo record.
Nel frattempo, proprio in queste settimane Avetrana si prepara a tornare sotto i riflettori. Atteso in autunno il nuovo documentario di Disney+ sul caso Sarah Scazzi, ragazza 15enne uccisa nel 2010 dalla zia e dalla cugina. Il turismo dell’orrore nel comune pugliese è ancora un’abitudine consolidata: da ormai quattordici anni è assaltato da avventori che, sulla via del mare, si fermano per selfie e foto nella cittadina tra Taranto e Lecce. Molti, tra gli abitanti, temono che l’uscita della serie possa rinvigorire questa consuetudine malsana.
La relazione tra giustizia e comunicazione è insomma un affare complesso. In uno Stato di diritto, tale equilibrio richiederebbe un delicato bilanciamento tra trasparenza e riservatezza, tra dovere di cronaca e rispetto per le procedure giudiziarie e per le famiglie. Basti solamente ricordare che, da un punto di vista deontologico, la libertà di stampa viene tutelata in Costituzione come diretta erede della libera manifestazione del pensiero solo entro i limiti di verità della notizia; di continenza dell’esposizione; di interesse pubblico (non del pubblico) e di attualità del fatto.
Occorre quindi domandarsi: il ‘prezioso ruolo dell’informazione’ deve per forza essere una fornitura quotidiana di domande moleste e notizie inutili? Davvero il tritacarne mediatico è da considerarsi un male indispensabile?
A leggere i giornali e guardare i programmi tv, l’impressione è che, almeno in Italia, la risposta sia quasi sempre sì.