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Gran Bretagna: elezioni, si cambia, valanga seggi laburisti, disfatta conservatori

05
Luglio 2024
Di Giampiero Gramaglia

Ecco finalmente un’elezione facile da raccontare; o che, almeno, così sembra. I laburisti vincono largo; i conservatori perdono di brutto; l’estrema destra va meno bene del previsto (e del temuto); gli scozzesi crollano; i liberal-democratici moltiplicano la loro – operativamente inutile – presenza.

A leggere la ripartizione dei seggi nella Camera dei Comuni britannica uscita dalle elezioni di ieri, anticipate di qualche mese rispetto alla normale scadenza, non ci sono margini di dubbio: i laburisti hanno 405 seggi su 650, un margine di 80 sulla maggioranza assoluta di 326, e ottengono, sempre in termini di seggi, il migliori risultato dall’epoca ormai sbiadita di Tony Blair; i conservatori scendono a 161 seggi, meno della metà di quelli che avevano; i liberal-democratici salgono a 61; e gli scozzesi sono una decina. Un caso a parte – vedremo perché – l’estrema destra del Reform Party di Nigel Farage: hanno una manciata di seggi.

Ma le percentuali dei suffragi, che il meccanismo uninominale britannico non rispecchia, raccontano una storia ben diversa, in un’elezione a bassa partecipazione per la Gran Bretagna (solo il 61% dei votanti). I laburisti sono al 35%, meno del 40% del 2017 –il leader era Jeremy Corbin-: con un terzo dei suffragi, hanno quasi i due terzi dei seggi. I tories, che avevano il 45%, sono scesi al 24%, ma il movimento di Farage ne sottrae loro il 15%. I libdem hanno meno voti hanno meno voti del Regform Party, ma 12 volte più seggi. Corbin, espulso dai laburisti, viene rieletto come indipendente.

Se leggiamo il risultato in termini di suffragi e non di seggi, sono i conservatori a perdere, ben più che i laburisti a vincere. Il tradizionale bipartitismo britannico appare in crisi: i due maggiori partiti raccolgono meno del 60% dei voti. E l’Opa ostile lanciata da Farage sui tories resta aperta: eletto per la prima volta al Parlamento britannico, il leader dei brexiteers, punto di riferimento britannico di Donald Trump, promette di dare l’attacco al potere nel 2029, cioè alla scadenza della legislatura.

Trump, Farage, Marine Le Pen in Francia sono mine per la politica mainstream. Ma il dato di fatto odierno è che la Gran Bretagna ha ora il primo governo laburista dal 2010: il premier uscente tory Rishi Sunak riconosce la batosta – per trovarne una analoga, bisogna risalire al 1906: i conservatori allora guidati da Arthur Balfour ottennero 156 seggi -; il leader laburista, sir Keir Starmer, ha già ricevuto il mandato da re Carlo III e formato il nuovo esecutivo.

La stampa Usa scrive che “la stagione delle porte girevoli è cominciata”, con un pensiero a quanto potrebbe succedere in Francia domenica e negli Stati Uniti il 5 novembre. Con uno sguardo più europeo, Politico.eu scrive che “il sogno della Brexit è morto”, dopo “molteplici fallimenti”, ma avverte che la vittoria dei laburisti non prelude assolutamente a un ritorno della Gran Bretagna nell’Unione europea: Starmer non l’ha nei suoi programmi e Jean-Claude Juncker, che presidente della Commissione europea “all’epoca dei fatti”, prevede, ironicamente, che il ritorno avverrà solo “fra un secolo o due”. Un miglioramento dei rapporti, però, ci sarà, o almeno lo si attende, sui temi economici e commerciali, ma anche della sicurezza e dell’immigrazione.

Una proiezione della Bbc, sulla base dei risultati reali che stanno affluendo, rivede leggermente le previsioni degli exit poll sull’assegnazione dei seggi nell’ambito delle elezioni britanniche. La maggioranza laburista viene ridotta nelle aspettative da 410 a 405 seggi, mentre ai conservatori di Rishi Sunak vengono attribuiti ora 154 possibili deputati (invece dei 131 previsti dagli exit poll): che sarebbe comunque il minimo storico, peggio dei 156 del 1906.

Il balzo dei liberaldemocratici viene pure lievemente ridimensionato, da 61 a 54 seggi previsti, mentre alla destra populista di Reform UK vengono accreditati 4 seggi certi invece di 13. In termini di voto proporzionale Reform tuttavia sembra sfondare, stando a queste proiezioni indicative, con quasi il doppio dei voti dei LibDem e pochi punti di svantaggio dai Tory.

Secondo John Curtice, guru dei sondaggi della Bbc, la valanga di seggi attribuita al Labour non corrisponde in ogni caso a un’analoga valanga di suffragi, che risultano aumentare in effetti di poco rispetto alla disfatta del 2019 e rimanere sotto il risultato ottenuto sotto la leadership radicale di Jeremy Corbyn nel 2017. La conclusione di Curtice è netta: questa elezione – ha detto, a dispetto delle dimensioni della super maggioranza pronosticata in Parlamento al partito di Starmer – “è stata persa più dai conservatori che non vinta dai laburisti”.

Nell’analisi di Alessandro Logroscino, corrispondente dell’ANSA da Londra, il risultato suggella una campagna elettorale intensa, ma priva di suspense, perché era apparsa decisa nei suoi esiti sin dalla convocazione delle urne a sorpresa a fine maggio: “Scommessa kamikaze del premier Sunak destinata in effetti a fare scoccare solo un po’ prima del tempo l’ora di un risultato scontato, figlio d’un diffuso sentimento di rigetto da fine ciclo del partito di governo più che non della capacità d’attrazione dell’offerta programmatica – prudente quanto vaga – starmeriana”.

Logroscino prosegue: “Scenario che si traduce ad ogni buon conto in una svolta generazionale. Nella fine di quasi tre lustri di governi a guida conservatrice segnati da crisi, scossoni, scandali, lacerazioni interne e cambiamenti di leader, fra responsabilità proprie e terremoti internazionali. oltre che dai contraccolpi – almeno per ora largamente negativi – di quella sorta di gioco di prestigio che è stato il referendum del 2016 sul divorzio dall’Ue, sfociato nella Brexit”.  

Una svolta generazionale consumata nel nome del ritorno alla normalità, caratteristica per ora dominante del profilo da ex procuratore della corona prestato alla politica di Starmer, 61 anni; e che gli elettori desiderosi d’un vero cambiamento (al di là del generico slogan elettorale ‘change’) sperano non si riveli normalizzazione. Ma che certo prefigura – dice ancora Logroscino – una cesura rispetto agli istrionismi di un Boris Johnson, il più controverso e divisivo (ma anche simbolicamente significativo) fra i cinque premier della girandola tory di questi 14 anni.  

Starmer è emerso politicamente nella corrente intermedia della ‘soft left’, salvo spostarsi passo dopo passo su posizioni sempre più centriste: punta a migliorare le condizioni della “gente comune” come antidoto alla “minaccia populista”. Le priorità programmatiche immediate riguarderanno l’avvio d’iniziative legislative su temi ecumenici quali “la stabilità e il rilancio dell’economia”, e ancora sanità, edilizia pubblica, sicurezza e contrasto “dell’immigrazione illegale”, abbandonando, però, il ‘piano Rwanda’.  

In questo contesto, già benedetto dalle prime reazioni rilassate dei mercati e del business, c’è pure l’impegno alla continuità sulla trincea dei conflitti internazionali – sostegno senza quartiere all’Ucraina in primis – e alla lealtà a Usa e Nato.  

Ai tories toccherà ripartire dal baratro, con un nuovo leader dopo l’addio inevitabile di Sunak. Molti ‘pezzi grossi’ sono usciti personalmente bocciati dal voto, a cominciare dall’ex premier Liz Truss e dal cancelliere dello scacchiere Jeremy Hunt, insieme a una decina di ministri.

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