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USA 2024: – 125, Corte Suprema riconosce parziale immunità a Trump, slittano i processi

02
Luglio 2024
Di Giampiero Gramaglia

Pronunciando una sentenza per molti aspetti controversa e gravida di rischi per la democrazia USA – così come per la sfida a USA 2024 – la Corte Suprema degli Stati Uniti ha riconosciuto parziale immunità al presidente per atti inerenti alle sue funzioni. “La natura del potere presidenziali vale all’ex presidente l’assoluta immunità dall’essere perseguito per le azioni compiute nell’ambito della sua autorità costituzionale”, afferma la Corte in un parere a maggioranza, i sei giudici conservatori (tre dei quali scelti da Donald Trump) contro i tre giudici progressisti.

La sentenza rispondeva a un ricorso presentato da Trump contro i suoi rinvii a giudizio. I media di destra come il Daily Signal enfatizzano il passaggio relativo alla “assoluta immunità”.

L’attesissima sentenza della Corte Suprema, che è stata pronunciata nell’ultimo giorno utile, prima della pausa estiva, apre la porta, nel parere di minoranza scritto dalla giudice Sonia Sotomayor, a interpretazioni autoritarie dell’ufficio presidenziale, consentendo al presidente d’ordinare senza tema azioni giudiziarie contro i suoi oppositori o di cancellare azioni giudiziarie nei suoi confronti, sapendo di non potere poi essere chiamato a renderne conto. La giudice Sotomayor chiude il parere in dissenso con queste parole: “Per timore per la nostra democrazia, io dissento”.

Invece, Trump ha accolto in termini entusiastici il verdetto della Corte, parlando di una sentenza “scritta in modo brillante e saggia”, condivisa – non è un caso – da un manipolo di giudici la metà dei quali da lui scelti.

Il verdetto della Corte Suprema ha l’effetto di rimandare alla casella di partenza i tre processi in cui Trump è accusato di reati federali compiuti mentre era presidente: le iniziative per rovesciare l’esito del voto del 2020 con l’insurrezione dei suoi sostenitori il 6 gennaio 2021; e le pressioni esercitate sulle autorità della Georgia perché gli “trovassero i voti” per ottenere la vittoria nello Stato; e anche la vicenda dei documenti segreti sottratti alla Casa Bianca e custoditi nella sua dimora di Mar-a-lago in Florida e altrove, che Trump sostiene di avere desecretato quand’era presidente senza che però ne esista la prova.

Gli inquirenti dovranno rivedere i capi d’accusa, nel caso del 6 gennaio già intaccati da una sentenza della Corte Suprema resa pubblica venerdì scorso, e distinguere fra le azioni del Trump presidente e quelle del privato cittadino, foss’anche candidato alla Casa Bianca. Trump deve attualmente rispondere di quattro capi d’accusa per avere tentato di ribaltare i risultati elettorali sobillando un’insurrezione per indurre il Congresso, riunito in sessione plenaria, a rovesciare l’esito del voto.

L’esercizio richiederà tempo e sarà esposto a ulteriori contestazioni, ricorsi in appello ed eventualmente deferimenti alla Corte Suprema. Il che esclude che i processi in sospeso a Washington, ad Atlanta – dove la posizione del pm è soggetta a verifiche non ancora concluse – ed in Florida – dove la giudice ‘trumpiana’ ha già provveduto per conto suo a dilatare i tempi d’avvio del giudizio – possano cominciare prima delle elezioni del 5 novembre.

E Trump, se sarà rieletto, potrà ordinare alla giustizia federale di chiudere in procedimenti avviati. Oppure, potrà concedersi il perdono per i reati compiuti. Intanto, i suoi legali hanno appena chiesto che la sentenza del processo in cui è stato condannato a New York a fine maggio – i  reati non sono federali e sono relativi a un periodo in cui Trump non era presidente -, prevista l’11 luglio, venga posposta.

La sentenza di ieri è solo l’ultima di una raffica di verdetti della Corte Suprema che hanno ‘minato’ le basi giuridiche di centinaia di processi condotti o intentati contro i facinorosi del 6 gennaio e hanno intaccato i poteri pubblici in diverse materie, pure in campo mediatico, riducendo la capacità di regolamentazione delle autorità federali e statali. Le sentenze, a giudizio dei media liberal Usa, aprono le porte a ulteriori contestazioni da parte di lobbies e movimenti anti ‘big government’.

Il punto di partenza della pretesa d’immunità di Trumnp era che, senza qualche forma di immunità, gli ex presidenti sarebbero sottoposti a persecuzioni politicamente motivate. Cosa che lui ha più volte minacciato di fare, se sarà eletto, nei confronti dell’attuale presidente Joe Biden, che dovrà rispondere – ha detto – “dei suoi crimini”.

In questo filone, si può collocare la decisione di ieri dei repubblicani della Camera di denunciare il segretario alla Giustizia Merrick Garland per non avere loro consegnato le registrazioni del colloquio avuto dal presidente Biden con il procuratore speciale che indagava sui documenti segreti trovati in suo possesso.

Sul verdetto della Corte Suprema, il presidente Biden è stato molto critico in una dichiarazione fatta alla Casa Bianca: per lui, i giudici supremi hanno creato un pericoloso precedente, che “potrebbe cambiare in modo fondamentale il più potente incarico al Mondo”. Biden s’è impegnato, per quanto lo riguarda, a rispettare i limiti dei poteri presidenziali, sostenendo che, alla luce della sentenza, non vi sono “praticamente limiti” a quello che un presidente può fare.

USA 2024: Bannon in prigione

Nella giornata di ieri, l’ex guru e consigliere speciale di Donald Trump, Steve Bannon, s’è consegnato alla prigione federale di Danbury, nel Connecticut, per iniziare a scontare la sua pena. La prigione di Dambury è una struttura a bassa sicurezza, un centinaio di chilometri a nord di Manhattan.

Bannon, attorniato da sostenitori che sventolavano bandiere e facevano suonare campanacci, deve scontare una condanna a quattro mesi per oltraggio al Congresso, per essersi rifiutato di deporre davanti alla commissione d’inchiesta sugli eventi del 6 gennaio 2021.

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