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Caffè: come nasce, come bere quello giusto. Ce lo spiega Simone Giordano

11
Febbraio 2024
Di Giampiero Cinelli

Gli italiani non hanno dubbi. Il caffè è una loro specialità. E in questo concetto c’è una parte di vero. Ma siamo davvero sicuri di sapere tutto del caffè? Ci siamo interrogati sul suo sviluppo nella storia, sul perché siamo arrivati a berlo come facciamo oggi, e ci siamo mai chiesti cosa vada ricercato per bere un caffè a regola d’arte? Di questo e di altro abbiamo parlato con Simone Giordano, barista di lungo corso e formatore per baristi, consulente in ricerca e sviluppo per torrefazioni, oltre che consulente tecnico per bar e start up. Le sue competenze sono certificate dalla Speciality Coffe Association (SCA), un bagaglio che Giordano ha portato nella pasticceria Dolcemascolo per la quale lavora, dirigendo attualmente il punto vendita di Roma.

Simone Giordano, barista

Il caffè non nasce sul nostro territorio. Come è diventato anche un simbolo italiano?

«La storia del caffè in Italia si sviluppa dal 1.600 circa, grazie al commercio dei veneziani con l’oriente. Proprio a Venezia, nel 1645, apre la prima “Bottega del Caffè”, mentre la prima caffetteria vera e propria sembra nascere a Vienna nel 1686 in seguito all’invasione turca. Diventa simbolo anche italiano effettivamente dal 1902, nel momento in cui i fratelli Bezzera introducono sul mercato una macchina per la preparazione di una bevanda a base di caffè che avvenisse in maniera espressa. Non parliamo di quello che oggi abbiamo come immaginario di “Espresso”, bensì di una bevanda molto simile alla moka, ovvero liquida e nera, dal profilo gustativo più amaro che complesso».

Perché oggi in Italia il caffè si concepisce espresso, mentre in altre importanti nazioni ha una preparazione diversa e solitamente intesa come “bevanda lunga”?

«In realtà alle origini delle estrazioni italiane, abbiamo anche tecniche di estrazione filtro; vedi la “Cuccumella” napoletana, inventata dal francese Moriz nel 1819 per poi essere perfezionata a Napoli. Fu una svolta per quanto riguarda la preparazione del caffè in casa, e non è altro che un sistema filtro a percolazione con filtro in metallo, paragonabile ad un più moderno “Drip” (si veda il modello V60), adatto alle temperature più alte. Ad oggi l’espresso ha maggior rilevanza per vari motivi: il primo è che siamo portatori nel mondo di un’invenzione rivoluzionaria in termini di caffè, ovvero la macchina per espresso, di cui giustamente andiamo fieri ed orgogliosi. Il secondo a parer mio invece è dettato più da un fattore sociale. Nel senso che difficilmente riusciamo e vogliamo soprattutto ritagliarci un momento lungo per il caffè. Il caffè per l’italiano è un break rapido, o motivo di socializzazione non impegnativa, o una routine per cominciare la giornata: uno shot and go».

È vero che il caffè non lavorato avrebbe un sapore (e un colore) del tutto diverso da quello che conosciamo?

«Assolutamente si. L’unico motivo per cui troviamo una serie di sapori e profumi vasti all’interno della tazzina di caffè, è la tostatura. Processo in cui effettivamente andiamo a cuocere il chicco, creando legami chimici nuovi nello stesso. Ad esempio la reazione di Maillard, che permette la caramellizzazione degli zuccheri, ci dà la possibilità di sviluppare nel chicco una serie di sentori (circa 800) che altrimenti non si avrebbero. Un chicco crudo è erbaceo, vegetale, per non parlare della densità troppo elevata, che non ne permetterebbe rottura e la conseguente estrazione».

Si sente dire spesso che il caffè che si trova nei bar sia in moltissimi casi di cattiva qualità (o forse preparato male). Se realmente così, quali sono gli errori comunemente commessi? Allora come si ottiene un caffè di livello e quali parametri di giudizio deve avere un consumatore?

«Questo per me è un tasto dolente. Io nasco barista per poi seguire un percorso formativo che mi permettesse di insegnare. Uno dei problemi principali, è la mancata formazione da parte dell’operatore, che spesso non sa cosa lavora, non ha idea di come debbano essere trattate le macchine e quale debba essere la manutenzione ordinaria da eseguire. Un’attrezzatura non pulita, non darà mai un’ottima tazza. Altro problema è non sapere che il caffè debba seguire una vera e propria ricetta, come qualsiasi altro prodotto. Per poter estrarre sempre la stessa tazza, la ricetta dovrà essere sempre uguale. Ci sono una serie di fattori che incidono, tra i più “immediati“ abbiamo il rapporto polvere-liquido, la temperatura dell’acqua e il tempo di estrazione. Variando solo questi tre parametri, abbiamo la possibilità di estrarre a parità di materia prima, 1.200 tazze. Spesso baristi si diventa per caso o necessità e non tutti hanno desiderio di approfondire ciò che fanno. Un altro problema poi è la logica commerciale, in cui si bada al prezzo e non alla qualità, un sistema in cui la torrefazione deve o sceglie di farsi carico di oneri che vanno al di fuori della materia prima, dispensando attrezzatura o arredamento, cercando di mantenere un prezzo competitivo sul mercato, sacrificando a volte la qualità della materia prima».

Quali benefici, anche fisici, si hanno nel bere un caffè a regola d’arte?

«Innanzi tutto esperienziali: il caffè ha mille sfaccettature, non è una bevanda nera ed amara, anzi, è una bevanda complessa, in cui si possono trovare sentori floreali, fruttati. Dai più banali ai più complessi. Un caffè estratto bene, ad esempio mono-origine, ci racconta il territorio di produzione, la vita e lo sviluppo della materia prima, un po’ come per il vino. In più noi abbiamo la malsana abitudine di mettere lo zucchero all’interno del nostro caffè per poterlo bere. In realtà un caffè ben fatto ha un suo equilibrio dettato da acidità, amarezza e dolcezza, motivo per cui non sarebbe assolutamente necessario l’utilizzo di zucchero».

Su cosa ti concentri e quali obiettivi finali ti poni quando ti approcci a un cliente?

«In realtà il mio approccio al cliente si basa molto su una passione spontanea. Ci sono delle indicazioni necessarie da dare, soprattutto per alcuni prodotti dai sentori più particolari; per il resto, di solito, è il cliente stesso che chiede, cerca informazioni, e il mio obiettivo è riuscire a rispondere a quante più curiosità possibili, in modo da scardinare convinzioni errate tramandate nel tempo».

Come tratteggeresti una buona cultura del caffè, profonda e magari pure scevra del patriottismo culinario che ci contraddistingue?

«Quello che più mi piacerebbe è far si che l’italiano capisca che siamo inventori dell’espresso, ma come per il vino, dietro al caffè c’è un mondo, un’esperienza gustativa che non deve ridursi ad uno shot and go, con cui poter giocare nella gastronomia, sia dolce che salata. Il caffè ha bisogno di essere visto con più ampiezza, ha un valore importante. Un obiettivo è sicuramente far conoscere alla gente il faticoso viaggio che c’è tra pianta e tazzina finale, affinché la scelta non ricada più solo sul prezzo, ma sull’elemento naturale in sé».

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