Politica
Mes, no della Camera. Le ragioni oltre la comunicazione
Di Giampiero Cinelli
La Camera ha detto un’altra volta no al Mes. Dopo l’ennesima bocciatura della ratifica del Meccanismo Europeo di Stabilità nella sua versione riformata, dovranno passare sei mesi prima che legge di ratifica possa essere di nuovo discussa in eguali termini. Questo veto non sorprende solamente per il fatto che arriva dopo il benestare della Germania (così l’Italia è rimasta l’unica a non approvare il testo, di fatto bloccando l’entrata in vigore in Ue), ma perché è la decisione successiva all’accordo su un altro importante tassello della governance economica, il Patto di Stabilità.
Bagarre in Aula
Trattandosi di un passaggio delicato per quanto riguarda la gestione della politica comunitaria, divisioni si sono viste anche in maggioranza, con il voto contrario di Fratelli d’Italia e Lega e l’astensione di Forza Italia e Noi Moderati. Anche l’opposizione è andata in ordine sparso, con il M5S che ha votato no, Alleanza Verdi Sinistra che si è astenuta e il Pd, Più Europa, Iv e Azione che hanno votato sì.
Nel corso dell’esame della proposta di legge in Commissione Bilancio della Camera, il governo aveva presentato parere contrario alla ratifica, affermando che mancassero le garanzie affinché il Parlamento sia coinvolto in un’eventuale futura attivazione del Mes.
Mes e Patto di Stabilità, la faccenda va vista integralmente
Eppure la chiave dell’analisi sembra risiedere proprio nella dicotomia tra Patto di Stabilità e Mes. Per quanto riguarda il Patto, manca il varo di Consiglio e Parlamento ma l’intesa è stata trovata. Il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti ha detto che nell’accordo sul documento ci sono cose buone e cose meno buone per l’Italia. Se infatti è stata ottenuta più flessibilità sul calcolo del deficit, depurato dai maggiori interessi da pagare sul debito pubblico per il periodo 2024-2027, e ci sarà più apertura sugli investimenti in sviluppo inclusi quelli del Pnrr, è pur vero che le nuove regole, una volta divenute effettive, non è detto giovino a Roma, che dovrà rientrare dal suo debito per un 1% l’anno, tendendo a un deficit (saldo entrate-uscite annue) strutturale del 1,5% anziché del 3%.
Il Mes e la questione bancaria
Ne consegue, che a spanne si dovranno accantonare almeno 7,6 miliardi all’anno, che si spera di compensare attraverso più concessioni sul versante degli investimenti e un piano di rientro concordato più lungo, spalmando i tagli in sette anni invece che in 4. Dall’altro lato c’è il Mes, il quale, qualora riformato, avrebbe comportato l’istituzione di un ulteriore meccanismo di salvaguardia nelle crisi bancarie (il cosiddetto Backstop). In sostanza si andrebbe ad aumentare il Fondo di Risoluzione Unico dedicato al settore creditizio, facendo passi avanti sull’unione bancaria. Tuttavia, in questo momento il governo italiano non sembra incline a impiegare altre risorse economiche, a supporto di banche che negli ambienti si dice non essere quelle italiane, preferendo, nel caso servisse, l’intervento dei rispettivi Stati o quello diretto della Bce come prestatrice di ultima istanza.
Le altre implicazioni
Ci sono poi altri due aspetti del Mes che nutrono la perplessità dell’Esecutivo italiano. Innanzi tutto, la probabilità che, dopo la ratifica della riforma, vi sia una maggiore spinta a far versare la restante parte della quota del Fondo sottoscritta dall’Italia. Roma ha una partecipazione nel Fondo (di cui in teoria percepisce anche gli utili) di 125 miliardi, ma concretamente fin ora ne ha versati solo 14,2. Giustamente vi chiederete perché il governo guidato da Giorgia Meloni sia in generale così restio ad apportare il suo contributo materiale, siccome anche l’Italia o le sue banche potrebbero avere bisogno di aiuto, ma la risposta sta nel fatto che il nostro Paese considera il Mes un meccanismo obsoleto e negativo, che è meglio far cadere nel dimenticatoio lasciandolo sostanzialmente inattivo. Anche perché, nel testo del Mes riformato, ci sarebbero le basi affinché venga effettuata una valutazione preliminare della stabilità finanziaria degli Stati, con il rischio di metterli in difficoltà nel loro finanziamento sui mercati. Tale attività preventiva è confermata in questo studio dell’Ufficio Ricerche del Senato a pagina 17.
Una concezione che non regge più
Va appunto tenuto a mente, che il Mes è un Fondo atto ad assistere le nazioni che perdono l’accesso ai mercati a seguito di condizioni di crisi, e all’Italia non piace molto l’idea che l’Europa del futuro sia concepita in questo modo, desiderando invece maggiore compattezza e sussidiarietà, abbandonando il principio secondo cui uno Stato debba assumersi eccessive responsabilità, di stampo quasi morale, se si trova un periodo di affaticamento finanziario.
Per Calenda è stata una «vendetta»
Dunque, può essere proprio perché il Patto di Stabilità è già oneroso, che Giorgia Meloni preferisca non sobbarcarsi anche il nuovo Mes, che comunque anche senza ratifica continua ad esistere. C’è chi come Carlo Calenda ha parlato di una mossa non casuale, con la quale si è accantonato un dossier dopo essersi impegnati su un altro, cercando di portare a casa il più possibile. Il leader di Azione si è espresso in modo assai schietto, affermando a Radio24: «Fdi e Lega hanno votato contro il Mes perché hanno siglato un Patto di stabilità che è punitivo per l’Italia. Il no al Mes è stata una vendetta, perché dopo tanto strombazzare noi avremo un Patto con regole più rigide. Io avrei messo il veto. E prima di arrivare a quello avrei appoggiato la proposta della Commissione, cosa che l’Italia non ha fatto e che era decisamente più europeista».