Dal 7 ottobre 2023 i giorni a Gaza si susseguono letali e terrificanti tra bombe, esplosioni, incendi e crolli. In particolare, la notte tra lunedì e martedì è stata forse tra le più cruenti dall’inizio del conflitto, contando centinaia di vittime e incursori. Ad alimentare inoltre questo senso di paura e angoscia è l’attesa per quell’invasione di terra che è sembrata per giorni imminente ma che al momento pare sospesa, per “ragioni tattiche e strategiche”, spiegano fonti militari israeliane. È probabile che ci siano ancora molte incertezze su come portare avanti l’operazione e, soprattutto, su quale potrebbe essere una “exit strategy” efficace: come evitare che l’Operazione a Gaza si trasformi per Israele e per la popolazione palestinese in un disastro, in termini umanitari ma anche politici, reputazionali e diplomatici. Se nei giorni immediatamente successivi all’attacco di Hamas l’appoggio della comunità internazionale ad Israele sembrava incondizionato, con il passare del tempo sempre più paesi occidentali, soprattutto gli Stati Uniti, hanno avviato intense campagne di pressione per moderare e razionalizzare la risposta militare di Israele: fare in modo che sia il più mirata possibile e che eviti il rischio di allargamento del conflitto a livello regionale.
Nel frattempo, il bilancio delle vittime continua a crescere mentre i negoziati per la liberazione degli ostaggi e l’apertura di corridoi umanitari nella Striscia vanno al rilento, malgrado la mediazione di Qatar ed Egitto. Situazione simile anche in Ucraina dove, nonostante una minore attenzione dovuta all’evolversi degli eventi nella regione mediorientale, i combattimenti proseguono a ritmi serrati. La controffensiva di Kiev avanza lentamente, e non senza fatica, mentre le forze armate russe continuano le operazioni di carattere offensivo senza sosta. I due conflitti sembrano inoltre essere intrecciati dalla difficoltà di far fronte agli impegni di forniture sui due fronti. L’Ucraina sollecita l’Occidente ad incrementare la produzione di armi e munizioni, temendo di restarne a corto se l’attenzione dei Paesi della Nato dovesse volgersi più a Sud che a Est. Se ci sarà un’escalation in Medio Oriente, infatti, gli Stati Uniti e i loro alleati dovranno distribuire aiuti e assistenza, senza dimenticare gli altri focolai di conflitto recentemente apertisi – forse non a caso – dal Caucaso ai Balcani all’Africa sub-sahariana.
E l’Italia? La premier Giorgia Meloni ha chiarito da subito la posizione italiana e ha avuto modo di confermarla anche in vista dell’ultimo Consiglio europeo: Roma è con Tel Aviv e Kiev e contro ogni forma di terrorismo. Soprattutto questa fase geopolitica si rivela particolarmente funzionale a una stretta sui controlli e sulla gestione dei flussi migratori, così come chiede da tempo l’Italia. Non a caso la Meloni è stata favorevole alla sospensione di Schengen e ha già annunciato l’individuazione di potenziali cellule islamiste in ingresso in Italia via Slovenia. La sostanza sembra essere un ritorno alla strategia del cosiddetto Piano Mattei, reso possibile da un contesto ideologicamente più favorevole in questa fase.
La relazione della Meloni è stata applaudita dalle Camere confermando la solidità della maggioranza. Una solidità che tuttavia negli ultimi giorni è stata messa in discussione dall’affaire Meloni-Giambruno, complice sicuramente anche l’enfatizzazione da parte degli organi di informazione. Una vicenda sottile, al centro della quale ci sarebbero nuove indiscrezioni relative ad altri fuorionda e a fare da contorno, invece, le tensioni tra la premier e il fronte Mediaset-Forza Italia. Per il momento una diatriba alimentata solo dai condizionali. Quello che conta sono i fatti e i fatti riferiscono di una maggioranza compatta. Poi, chissà.