Fill the gap
In Islanda si sciopera per la parità salariale. E in Italia? Intervista con Barbara Leda Kenny
Di Gaia De Scalzi
Da questa settimana l’Islanda, primo paese al mondo per la parità di genere, è passata alla storia per non essere ancora soddisfatta della parità raggiunta. Infatti, oltre 100 mila manifestanti si sono riversate per le strade di Reykjavík chiedendo, tra le altre cose, l’azzeramento del divario retributivo. Perché se è vero – spiega Freyja Steingrímsdóttir, portavoce dell’edizione 2023 dello sciopero – «che ci hanno sempre detto che siamo il Paese più evoluto e che dovevamo essere appagate» è altrettanto vero che «dobbiamo essere ambiziose, rinnovare la nostra lotta ed essere un modello». E così, dal 1975 ad oggi, l’Islanda ha indetto il “settimo sciopero delle donne”, al quale stavolta si è unita persino la Premier.
“Ambiziose”. Un aggettivo che in Italia ha quasi un’accezione negativa se accostato a una donna, un sinonimo di carrierista e quindi disposta a mettere da parte tutto il resto pur di farsi strada sul lavoro: matrimonio, figli e tempo libero. Non è un caso se nello Stivale di proteste analoghe se ne contano pochissime.
«In realtà – come ci racconta Barbara Leda Kenny, antropologa e senior gender espert della Fondazione G. Brodolini – in Italia ci sono stati dei tentativi di scioperi al femminile, anche in tempi meno recenti rispetto all’Islanda. Tuttavia, il grande tema resta l’adesione. La cosa sorprendente è stata la partecipazione della Premier. Questo indica che non si tratta di una protesta contro un Governo o un’azienda, bensì di uno sciopero di matrice politico-culturale.»
Secondo le promotrici uno degli obbiettivi è puntare all’azzeramento del divario retributivo, che attualmente si è ridotto del 90%, quindi manca pochissimo. Ma come ci si arriva al 100%? Dove sta il cortocircuito?
«C’è una dinamica tipica, ovunque nel mondo, legata al gap salariale. Il divario aumenta man a mano che si sale nella gerarchia lavorativa, cioè quando la posizione ricoperta all’interno di un’azienda diventa particolarmente prestigiosa. E questo avviene soprattutto in ambito privato. Sebbene le multinazionali siano corse ai ripari, non è infrequente notare come una Ceo donna venga pagata meno di un Ceo uomo».
Tremo all’idea di chiederle come siamo messi in Italia…
«Da noi il divario salariale ha delle specificità ed è – difficile a credersi – più basso che nel resto d’Europa. Inverosimilmente risulteremmo quasi paladini della risoluzione del gender pay gap ma è un falso amico, perché il tutto è dovuto a delle storture presenti nel mercato del lavoro italiano».
Cioè?
«Intanto iniziamo con il dire che l’Italia ha un tasso di occupazione femminile bassissimo, complice anche il lavoro sommerso e quello di cura che, come sappiamo, non è pagato. Detto questo le donne nel mercato salariato formale sono una su due, addirittura in alcune zone sono solo una su cinque. Questo cosa comporta? Che coloro che lavorano sono le più istruite e per la maggior parte trovano occupazione nel settore pubblico, ossia il settore dove il differenziale salariale è pressoché inesistente. Pertanto, l’Italia sul divario retributivo performa bene ma solo perché per le donne italiane lavorare è quasi un privilegio di classe. Un’altra caratteristica tutta nostrana riguarda la perenne infantilizzazione delle donne nel mercato del lavoro. Mi spiego meglio: è come se venissero trattate al pari dei giovani, quindi fanno ancora tanta fatica ad affermarsi professionalmente e a ricoprire posizioni importanti. Più che di divario salariale, il nostro Paese ha un problema di traiettorie di carriera».
Mi viene da dire che le quote rosa sono servite a poco, se non – come si dice – a salvare la faccia…
«Proprio il 24 ottobre sono usciti i dati del Rapporto Eige (Gender equality index, il rapporto dell’Istituto europeo per la gender equality ndr). Tra le dimensioni che vengono misurate c’è quella del “potere”, inteso sia economicamente sia politicamente, e l’Italia da anni avanza progressivamente. Questo dato lo dobbiamo a leggi come la “Golfo-Mosca”, volta a favorire l’ingresso delle donne nei cda delle aziende quotate in borsa, oppure grazie a meccanismi come l’alternanza di genere nelle liste elettorali. Ma se guardiamo al di sotto dei cda, le donne nei posti apicali sono pochissime e vengono comunque pagate meno degli uomini. Troppo spesso si tende a ritenere che le battaglie sui diritti delle donne siano battaglie civili ma così non è. Sulle donne pesa una parte economica importante, una parte che se riuscissimo a contabilizzare altererebbe il nostro Pil. Pensiamo solo al lavoro di cura prestata gratuitamente».
Scusi ma negli altri paesi come viene gestito il lavoro di cura?
«Esistono un’infinità di servizi diversificati e in grado di rispondere a tutte le esigenze. In Francia esistono almeno otto tipi di prestazioni dedicate alla prima infanzia, noi abbiamo solo il nido. Per non parlare dei sostegni economici alle famiglie, quattro volte superiori a quelli erogati in Italia. Il tasso di occupazione delle francesi è al 75%, perché fare figli premia e non ti penalizza sotto nessun punto di vista. Poi c’è un ruolo molto attivo dei papà, mentre da noi le neo mamme rassegnano le dimissioni dando come motivazione l’assenza dei nonni, che garantiscono maggiore flessibilità di un nido, e dichiarano di non volere il secondo figlio per via della scarsa partecipazione degli uomini alla cura familiare».
Fatto sta che nel nostro Paese le battaglie femministe che hanno portato a una svolta nei diritti delle donne si sono arenate a metà degli anni Ottanta e da allora, come ci spiega Kenny, è stato normalizzato un modello di parità di genere che in Islanda viene rifiutato in tutto e non in parte. E se i primi scioperi delle donne islandesi iniziavano alle 14:10 (orario in cui a causa del divario salariale la giornata lavorativa di una dipendente si considerava terminata), quest’anno la protesta è stata indetta un’ora dopo, segnale che qualcosa – con la perseveranza – è stato ottenuto.
La ricetta sembra essere proprio quell’“Ambizione” citata all’inizio, quella che alle donne italiane al momento manca per mobilitarsi in massa tanto da far sentire in obbligo persino il nostro Capo del Governo a scendere in piazza. Quell’ambizione che nel nostro Paese solo i tassisti paiono avere.