Politica
I motivi della denatalità in Italia. Intervista con Alessandra Minello
Di Gaia De Scalzi
Le immagini della Premier Giorgia Meloni sul palco del Budapest Demographic Summit – tenutosi la scorsa settimana – sono oramai un lontano ricordo, ma non le sue parole. Un discorso di 25 minuti circa in cui ribadisce come una delle priorità del suo Governo (e della prossima Manovra) riguardi la natalità. Tanto da averle riservato un posto all’interno della denominazione del ministero guidato da Eugenia Roccella, anche lei certa che, per contrastare il fenomeno della denatalità in Italia, servano, prima di tutto, politiche economiche a sostegno delle famiglie.
Ma è davvero una questione soprattutto economica o ci sono altri motivi per cui nel nostro Paese nascono sempre meno bambini? Questa domanda ci frullava in testa da un po’ e per dissipare ogni dubbio abbiamo deciso di interpellare un’esperta in materia: Alessandra Minello, ricercatrice in Demografia al Dipartimento di Scienze statistiche dell’Università di Padova.
«Diventa una questione economica nel momento in cui sappiamo che a contare è la posizione contrattuale di entrambi i genitori. Infatti, dal 2010 – anche in Italia – l’ingresso dello stipendio femminile all’interno di una coppia ha il suo peso. E dove c’è più occupazione femminile, c’è una fecondità più elevata. Per le coppie in generale, oggi l’aspetto dirimente è avere due contratti a tempo indeterminato. Ma non è tutto, perché a contare è anche la percezione della situazione economica. Chi vive in un’area depressa dal punto di vista occupazionale è più incerto sulla pianificazione a lungo termine, come quella appunto di avere un figlio».
Quindi la risposta è ni…
«Vanno altresì considerati gli aspetti più strutturali, indirettamente legati alla questione economica. Basti pensare ai servizi; averli o non averli incide sulla gestione finanziaria di una famiglia, così come averli gratuiti o a pagamento».
Insomma, taglia corto Minello: «È una spirale. Se il tasso di occupazione femminile si alza, ma a mancare sono i servizi, chi si occupa dei figli? E se una mamma resta a casa per occuparsi della prole, venendo tagliata fuori dal mercato del lavoro, come può contribuire ad alzare i tassi di fecondità senza uno stipendio adeguato? Torniamo sempre al punto di partenza».
Se, come dichiarato più volte da questo Governo, i figli sono una risorsa preziosa per l’economia di questo Paese, secondo la demografa curatrice del rapporto “Le equilibriste: la maternità in Italia” di Save The Children «È necessario alzare il tasso di fecondità perché esiste un gap tra quanti figli si desiderano rispetto a quelli che si riescono a mettere al mondo».
La soluzione sembrerebbe tuttavia risiedere in due parole: stipendi e servizi (assicurati!)…
«Non si riduce tutto a questi due fattori. Prossimamente – anticipa Minello – inizieremo un nuovo fronte di ricerca, della durata di due anni, per indagare anche su altri aspetti che inficiano la natalità. Parliamo di eventi legati all’esperienza di genitorialità che possono influire sul desiderio di avere uno o più figli, come ad esempio la depressione post partum, episodi di violenza ostetrica, percorsi di fecondazione assistita non andati a buon fine ma anche percorsi di adozione particolarmente complessi. Infatti, un carico mentale, oltre che di cura, troppo sbilanciato può rallentare o escludere quella che tecnicamente viene chiamata “transizione al secondo figlio”».
Per le italiane la fotografia scattata è abbastanza chiara e desolante. Lo è altrettanto per le straniere che scelgono di vivere nel nostro Paese? Ha senso parlare di sostituzione etnica?
«Assolutamente no. La recessione economica e la pandemia hanno ridotto sensibilmente la presenza della popolazione straniera in Italia. E quella già presente ha esaurito il suo percorso di fecondità, essendo più avanti con gli anni. Inoltre, molte di queste donne non solo hanno – pian piano – interiorizzato diversi aspetti culturali del nostro Paese (tra cui la tendenza a un desiderio di genitorialità più basso rispetto ai paesi di origine), ma hanno anche imparato a scontrarsi con le inefficienze strutturali, come appunto la carenza di servizi. Infine, l’Italia è fortemente ancorata a un sistema di reti familiari sul quale queste donne non possono contare perché spesso le migrazioni non sono intergenerazionali».
E senza nonni, non si va da nessuna parte…
«Purtroppo è così. È come se il legame genitore-figlio venisse usato come scusa per non investire in servizi alternativi».
Con queste premesse è facile archiviare la pratica genitoriale!
«Parlare di rinuncia a uno o più figli è sbagliato. La verità è che le coppie si ritrovano in un contesto in cui non è possibile prendere liberamente la scelta di appagare il proprio desiderio di genitorialità per assenza o carenza di condizioni sociali, economiche, assistenziali e lavorative favorevoli».
Che dire, “non è un Paese per madri” è un’espressione azzeccatissima che ha dato il titolo a un suo libro. Ma ci sarà un modello che funziona. Quale?
«I modelli non si possono esportare tout court da un Paese all’altro. Bisogna sempre contestualizzarli. Quello che funziona in Germania potrebbe non andare bene per l’Italia. Però ci sono misure come l’assegno unico familiare o i fondi destinati alla costruzione di asili nido che potrebbero rivelarsi molto validi se fossero rispettivamente più corposi e realmente adoperati. Tuttavia, da noi mancano ancora all’appello i congedi parentali paritari, un po’ sulla falsa riga della Finlandia. E poi una considerazione su tutte: non possiamo non ripensare al modello scolastico e a quello lavorativo in termini di orari, flessibilità e organizzazione. La scuola ancora oggi è pensata come se ci fosse un genitore a casa, mentre gli orari di lavoro troppo spesso strizzano l’occhio a chi figli non ne ha o non se ne prende direttamente cura».