Cultura
Social a pagamento? Tutto vero. I motivi e gli scenari
Di Giampiero Cinelli
Ammettiamolo, nell’ultimo periodo abbiamo creduto che le Big Tech, come quelle inventrici dei social, fossero entità pronte a sostituirsi agli Stati, che avrebbero governato il nostro modo di comunicare, plasmato i nostri comportamenti, le nostre consuetudini. Se per certi versi alcuni aspetti della nostra esistenza sono inesorabilmente cambiati dopo l’ultima rivoluzione della tecnica, in questo momento stiamo cominciando a vedere i colossi del web per quello che di base sono: aziende. Aziende “over the top”, certo, capaci di guidare quella dimensione astratta e per molti criptica che è il digitale, ma pur sempre corporation sensibili alle azioni della politica e delle istituzioni multilaterali.
Da quando l’Europa ha aggiornato il Gdpr, il testo normativo sul trattamento dati, e dopo che le istituzioni degli Stati Uniti hanno preteso maggiori delucidazioni sull’operato di queste società riguardo alla gestione delle informazioni, i Ceo hanno compreso una cosa determinante: d’ora in poi non sarà più così semplice far circolare pubblicità personalizzata, ovvero basata sulla profilazione degli utenti. Questa è in realtà necessaria, poiché se i social devono restare un servizio gratuito, allora i mastodontici guadagni che le Big Tech hanno bisogno di fare per essere sostenibili devono ottenersi proprio attraverso lo studio del consumatore, attività che interessa parecchio agli inserzionisti.
Lecito pensare che una corporation digitale possa comunque fare utili anche se non profila, aumentando la sua redditività paradossalmente riducendo gli utenti ma razionalizzando le spese e snellendo il personale. Eppure non è una strada che porta lontano. Lo hanno capito i media online, che hanno intrapreso una transizione, completa o parziale, dal modello di business basato sulla pubblicità a uno sugli abbonamenti, a maggior ragione che i siti di news sono tenuti a chiedere all’utente se vuole accettare i cookie o no. Ma appunto i social sono ancora un servizio gratuito e devono generare un profitto che superi gli alti costi che comporta ogni singolo utente, anche perché si tratta di marchi quotati in borsa e dunque gli è richiesta una crescita costante.
Posto che, come abbiamo detto, la profilazione dell’utente comporterà sempre più insidie per via di possibili sanzioni milionarie, si sta parlando di un futuro con i social a pagamento. Elon Musk crede che far pagare l’accesso possa disincentivare fortemente la presenza di profili falsi o di coloro che diffondono notizie false, ma l’ipotesi ancora non ha avuto prove convincenti. Nell’ambiente l’ipotesi sembra sempre più concreta, alle dichiarazioni dei manager insomma dobbiamo dare ascolto, anche se pure loro non possono prevedere le ricadute in termini di fuga degli utenti. E se i vip optassero orgogliosamente di non adeguarsi al nuovo corso? Ne risentirebbe più degli altri Twitter/X che ruota molto attorno al contributo degli attori, dei personaggi televisivi, dei giornalisti.
Certo molti malumori ci sarebbero – un’anticipazione l’abbiamo avuta quando la star del basket Lebron James si è rifiutato di pagare per tenere la spunta blu sul profilo Twitter (l’azienda ha rimosso la spunta che indica l’identità verificata su diversi profili ma ha lasciato quella di James). Tuttavia, non possiamo neanche pensare che soggetti che con i media ci lavorano, rinuncino tanto facilmente ai benefici derivanti da certe piattaforme. E allora, per adesso, la prospettiva più realistica è quella del compromesso, in cui l’utente possa decidere se pagare, senza essere profilato, oppure ricevere la pubblicità sul suo feed, questa sì personalizzata in cambio della gratuità.
Dunque la profilazione a fini commerciali è ancora lecita? Sì, ma purché si adatti alle nuove leggi (per noi il Gdpr e la Disciplina sulla privacy nelle comunicazioni elettroniche) e soprattutto deve essere comunicata in modo trasparente, giustificata sulle fondamenta del contratto che fornitore e utente stipulano. Un contratto di cui la quasi totalità di chi sta sui social neanche si rende conto. Insomma i colossi Tech dovrebbero spiegare apertamente com’è che possono stare in piedi e perché hanno bisogno dei dati delle persone. Tenendo conto, peraltro, che in Italia, motivare la profilazione in virtù del legittimo interesse delle società, non è ammesso come base giuridica del contratto dalla Direttiva E-privacy.
Permangono, sicuramente, questioni etiche. Quanto valore diamo alla privacy e anche se sia giusto che la privacy sia una merce di scambio. O meglio solo un diritto per chi può pagarla. Tuttavia le posizioni più moralistiche dovranno reggere a un intenso dibattito sociale e giuridico che è appena iniziato e avrà risvolti cruciali.