Cultura
Non si abbia paura di parlare di sicurezza (e di pugno di ferro)
Di Daniele Capezzone
È comprensibile, e per molti versi condivisibile, che anche dinanzi a gravissimi episodi di criminalità (si pensi agli orrendi fatti di Caivano), il governo, le forze politiche e i commentatori – ciascuno dal proprio punto di vista – non si limitino a risposte esclusivamente legate all’ordine pubblico, ma evochino la necessità di una serie di altre cose da fare: di volta in volta, relative alla scuola, all’educazione, allo sport, e così via.
Ma sarebbe un errore culturale e politico se, in nome di questa panoplia di risposte, si mettesse eccessivamente in secondo piano il cuore del problema: e cioè la primaria, specifica e ineludibile questione della sicurezza e del contrasto al crimine.
Non si abbia paura di chiamare le cose con il loro nome: serve una lotta senza quartiere sia alla criminalità organizzata sia ai cosiddetti (erroneamente) “crimini minori”. Penso, specie nelle grandi città, alla piaga dei furti, degli scippi, delle rapine. Altro che “minori”.
Serve – su questo – un rigore speciale, un vero e proprio pugno di ferro. E non si tratta solo di una esigenza degli elettori di destra, ma di una richiesta trasversale di una maggioranza enorme degli italiani. Pensiamo alle aree circostanti le stazioni ferroviarie, ormai trasformate in terra di nessuno. Pensiamo alle periferie delle maggiori città, con non pochi spazi trasformati de facto in “no go zones”.
In un arco temporale adeguato (alcuni anni, non certo alcune settimane), servono segni tangibili di cambiamento, testimonianze visibili per i cittadini di una pagina effettivamente nuova.
Ciò non è alternativo alle risposte culturali e sociali. Ma il nocciolo della questione sta qui: i cittadini devono sentire fisicamente e psicologicamente maggior sicurezza. Non c’è motivo di aver timore nel comprendere questa richiesta, nell’interpretarla con realismo, e nel cercare di soddisfarla.