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Intrighi e misteri nei triangoli del potere in Russia e della guerra in Ucraina
Di Giampiero Gramaglia
Intrighi e misteri nel triangolo Mosca – San Pietroburgo – Minsk; e non solo, anche in quello Istanbul – Kiev – Mosca. Sta succedendo qualcosa, sui tavoli del potere in Russia e pure sul fronte dei negoziati tra Russia e Ucraina, ma non è affatto chiaro che cosa; e non si capisce neppure se quel che s’intuisce (o s’immagina) abbia una valenza positiva o negativa.
Cominciamo dalla Russia, dove – apparentemente – il capo dei mercenari del Gruppo Wagner Evgheny Prigozhin ha inscenato, tra il 23 e 24 giugno, un ammutinamento contro il presidente russo Vladimir Putin: una città, Rostov-sul-Don, occupata; morti e feriti; una marcia di blindati su Mosca abortita, grazie alla mediazione del presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko, a 200 chilometri dalla capitale; una sorta di ‘liberi tutti’ per Prigozhin e i suoi miliziani – per lui, l’esilio a Minsk; e, per loro, una divisa dell’esercito russo, se lo vorranno -.
Questo quanto s’è visto e s’è creduto. Poi si scopre, e il Cremlino conferma, che il 29 giugno, appena cinque giorni dopo, Putin ha incontrato Prigozhin. I due non erano soli: all’incontro, durato quasi tre ore, avrebbero partecipato 35 persone, fra cui i comandanti di vari reparti della Wagner e generali russi.
Putin avrebbe ascoltato le ragioni dei mercenari e avrebbe “offerto loro ulteriori opzioni di lavoro e di impiego in combattimento” (non è detto se in Ucraina o altrove, in Africa, dove i Wagner sono presenti dalla Siria alla Libia e nella fascia sub-sahariana). Da parte loro, gli ‘insorti’ avrebbero “ribadito il sostegno al presidente” e la disponibilità a “continuare a combattere per la patria”.
La conferma dell’incontro, avvenuto mentre tutti pensavano che Prigozhin fosse in Bielorussia, segue la notizia data da Lukashenko e non smentita dal Cremlino che il capo della Wagner sarebbe attualmente a San Pietroburgo, dove la sua casa è stata perquisita dai servizi di sicurezza russi, che vi avrebbero trovato – e sequestrato, ma non è più così sicuro – soldi, oro e droga.
Dalla sommossa, della cui autenticità s’inizia a dubitare, Prigozhin non è più stato visto in pubblico, anche se s’è fatto vivo con audio e video, sostenendo sempre che l’ammutinamento non era rivolto contro Putin e il suo potere, ma contro la leadership militare russa. Però, nel frattempo, il ministro della Difesa russo Sergej Shoigu e il comandante delle operazioni in Ucraina Valery Gerasimov sono stati visti nel pieno esercizio delle loro funzioni (Shoigu e Gerasimov sono stati per mesi bersagli delle critiche di Prigozhin). L’unico di cui si sono perse le tracce davvero è il generale Sergej Surovikin, un ex comandante in Ucraina, finito forse agli arresti – non ve n’è conferma – e sospettato di essere una quinta colonna del fallito putsch.
A questo punto, tutte le ipotesi sono lecite. Proviamo a farne alcune, chiarendo che sono solo ipotesi, con pro e contro:
- non c’è stato nessun ammutinamento, ma un gioco delle parti tra Putin e Prigozhin, per ‘testare’ la fedeltà dell’apparato militare e smascherare dei ‘traditori’: improbabile perché entrambi ne sono usciti male (e non poteva essere altrimenti) e perché tutto quell’ambaradan avrebbero prodotto solo il siluramento di un generale (per altro, già silurato);
- Putin e la Russia hanno bisogno di Prigozhin e dei Wagner per non indebolire troppo i loro apparati di guerra in Ucraina e/o altrove e non possono permettersi di rinunciarvi: dunque, deve finire tutto ‘a vodka e caviale’, tanto più che, da quando i mercenari si sono ritirati dalle loro posizioni, gli ucraini si stanno riprendendo Bakhmut;
- Prigozhin è in grado di ricattare Putin, sa cose che il presidente non vuole siano divulgate o altro di analogo; però, se fosse così, era più logico cogliere l’occasione dell’ammutinamento per eliminarlo, invece che rimetterlo in circolazione;
- Prigozhin s’è pentito e Putin l’ha perdonato: la versione Disney appare la più inverosimile, poco adatta alla location e ai personaggi.
Se poco è chiaro nel triangolo Mosca – San Pietroburgo – Minsk, nulla lo è in quello Istanbul – Kiev – Mosca, dove agisce un ‘maestro dei giochi multipli’, il presidente turco Racep Tayyip Erdogan: dopo essere stato attento per 500 giorni a mantenere buoni rapporti con Putin e con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, incurante del fatto di essere a capo di un Paese della Nato, Erdogan, negli ultimi giorni, è apparentemente diventato ‘ultra – atlantista’. Sì all’adesione dell’Ucraina alla Nato, proprio mentre la Nato frena; consegna a Zelensky di comandanti dell’Azov, il battaglione che difese Mariupol, che dovevano restare in Turchia; sì all’ingresso nella Svezia nella Nato, in cambio di una del tutto improbabile prospettiva di ingresso della Turchia nell’Ue (e degli F-16 Usa, unica cosa tangibile): tre dita nell’occhio a Putin, che sta nicchiando sulla proroga della ‘pace del grano’, negoziata proprio da Erdogan un anno fa. Che cosa abbia in mente Erdogan, forse solo lui lo sa. E noi, forse, non lo scopriremo mai.