Politica

Usa 2020, intervista a Simone Crolla: “Una sfida radicale per tutto l’Occidente”

27
Ottobre 2020
Di Piero Tatafiore

Se in Italia c’è un posto in cui si possono analizzare da vicino e in profondità le dinamiche economiche e politiche americane, questa è l’American Chamber of Commerce in Italy. Basata a Milano, dal 1915 lavora per agevolare gli scambi commerciali tra il nostro Paese e gli USA. Presidente è Luca Arnaboldi e a guidarla dal 2009 come Managing Director è Simone Crolla, infaticabile tessitore di relazioni. Con lui facciamo il punto sulle elezioni del 3 novembre.

Quanto impatta la politica estera nelle campagne elettorali americane?

La politica estera è da sempre un argomento più per le discussioni degli analisti di politica internazionale che per le campagne elettorali americane. Non è mai stato il terreno su cui si è giocata un’elezione presidenziale. Due recenti indagini di Pew Research e Gallup lo confermano. Secondo Pew, la politica estera è al sesto posto tra gli argomenti di maggior interesse per gli elettori, dietro a economia, salute, nomine alla Corte Suprema, pandemia e criminalità. Secondo Gallup è addirittura al dodicesimo posto. Rimane comunque un elemento importante nella costruzione di un programma presidenziale. Nei dati di Gallup gli elettori di Biden e Trump assegnano la stessa importanza a questo argomento.

Quando si è candidato (ed eletto) per la prima volta Obama aveva 48 anni, Clinton 47, Bush 51. Oggi Trump ha 74 anni e Biden quasi 78: la politica USA ha perso la spinta innovativa?

Il confronto politico degli ultimi mesi, in vista del 3 novembre, è stato spesso etichettato come una sfida tra “vecchietti terribili”. Tutto ciò è vero solo in apparenza. Joe Biden, già Vicepresidente di Obama e storico esponente del centrismo dem, gode di grande popolarità tra i più giovani, che sembrano essersi rinvigoriti e che appaiono più attivi in questa campagna elettorale, diversamente da quanto accaduto nel 2016, tornando come non mai protagonisti del dibattito politico a stelle e strisce. Il Presidente Trump è stato in grado di mobilitare non solo la base repubblicana, ma di cambiare l’impostazione del partito, ritornando a parlare a strati della popolazione che non vedevano più nel partito un rappresentante dei loro interessi. Sono candidati che interpretano al meglio le esigenze delle rispettive basi elettorali e che sono usciti dalla battaglia delle primarie (Biden) in modo vincente e che hanno rivoluzionato (Trump) lo scenario politico americano. Dietro di loro si intravedono le nuove leve che si contenderanno la Casa Bianca nei prossimi anni, possiamo perciò affermare che il 2020 è una tappa di passaggio verso una nuova generazione di leader politici americani. Quindi, nonostante l’anagrafica predominante, le elezioni del 3 novembre saranno una sfida radicale, non geriatrica. E imprimeranno una nuova direzione a tutto l’Occidente.

Come inciderà la gestione dell’emergenza coronavirus sul voto di novembre, sarà la principale issue su cui si focalizzeranno gli elettori?

A poco meno di una settimana dal voto, si registrano 88.973 contagi in un solo giorno negli USA, picco dall’inizio dell’emergenza. Tuttavia, nonostante la difficile situazione negli USA come nel resto del mondo, il tema coronavirus non è la preoccupazione principale per gli elettori. Da sempre le elezioni presidenziali si giocano sui temi interni dell’economia, secondo il claim coniato da Bill Clinton nel 1992 “It’s the economy, stupid!”. Indubbiamente il coronavirus ha impattato la campagna elettorale ma gli elettori decideranno il prossimo inquilino della Casa Bianca sulla base del suo progetto presidenziale e non sulla base di un evento esogeno su cui nessuno al mondo è riuscito a reagire in modo efficace.

Il voto per posta aiuta a ridurre le code ai seggi. Ad oggi sono oltre 60 milioni ad aver votato: questo non rende inutili le ultime due settimane di campagna?

La campagna elettorale – specialmente in un periodo tanto complicato– ha acceso come non mai i riflettori sui due candidati e sui loro programmi. I cittadini americani sono particolarmente attivi e coinvolti in una tornata elettorale che, date le sfide epocali che ci accingiamo a vivere, influenzerà certamente il loro futuro. Per questo motivo, se l’andamento attuale dovesse continuare, potremmo assistere ad un’affluenza record. Ha finora votato il 40% dei voti registrati alle presidenziali del 2016, quando votarono quasi 137 milioni di persone. Ricordiamo, però, il ruolo fondamentale giocato dai cosiddetti Swing States, come Texas, Florida, Michigan e Ohio. Essi insieme garantiscono una somma di ben 101 grandi elettori, fondamentali per entrambi i candidati. In questi Stati il Presidente Trump sta concentrando l’attenzione negli ultimi giorni.

L’economia americana sembrava in crescita prima del coronavirus. Le ultime rilevazioni, però, mostrano da una parte una riduzione della disoccupazione e dall’altra un aumento del debito e del deficit commerciale. Come sta effettivamente la più grande economia del mondo occidentale?

Quest’anno ci ha insegnato che possiamo regolare le vele ma non possiamo controllare il vento. Negli USA la crescita economica nel terzo trimestre ha registrato una forte ripresa dopo il rallentamento dell’economia del secondo trimestre. Lo scenario base è quello di una progressiva e graduale ripresa verso il 2021, con il rischio di improvvisi shock dovuti all’evoluzione di questa seconda ondata. Non è da sottovalutare il valore – secondo i dati del Dipartimento al Tesoro– del deficit, salito al 16% rispetto al PIL, la percentuale più elevata dal 1945. Numeri certamente alimentati da una spesa federale cresciuta del 47,3%, a 6.550 miliardi di dollari, anche per gli oltre 2.200 miliardi di dollari di stanziamenti del Cares Act. Il Congresso è attualmente impegnato nella negoziazione di un altro pacchetto di aiuti per l’economia americana, con l’idea di accelerare l’uscita da questa crisi: risulta chiaro come l’economia oggi abbia bisogno della politica. Di certo l’economia americana ha reagito in modo rapido e reattivo a questo shock esogeno, sono certo che – a prescindere dal risultato del 3 novembre – questa curva di ripresa continuerà.

In questi quattro anni abbiamo visto un acceso scontro tra USA e Cina: possono essere i nuovi poli geopolitici ed economici nei prossimi anni? Quale ruolo giocherà la Russia?

USA e Cina sono già i due poli geopolitici attorno ai quali si articolerà il mondo nei prossimi anni. Nel corso della pandemia si è affermato un concetto, il c.d. decoupling, ossia la possibilità che le catene del valore americane e cinesi si separino definitivamente creando due sistemi economici, produttivi e commerciali privi di connessioni. Ad oggi, stando ai dati commerciali e d’investimento, appare difficile pensare che tale processo possa accadere in breve tempo. La Cina esporta negli USA per oltre $450 miliardi, con il record del più rilevante deficit commerciale per la bilancia commerciale americana. Al contrario, gli USA hanno investimenti in Cina per oltre $100 miliardi, segno di come le aziende americane abbiano stabilito importanti piattaforme produttive. Questi due Paesi, rivali strategici secondo la definizione che si ritrova nella National Security Strategy degli USA, sanno di essere al momento interdipendenti, come dimostrano anche i numerosi negoziati sul commercio per ridurre le sanzioni reciproche attualmente in vigore. La Russia gioca il ruolo di terzo incomodo, al momento più in asse con la Cina che con gli USA, viste le reciproche diffidenze e sanzioni in vigore. Tuttavia, non è da escludere che nel corso dei prossimi anni possa riprendere vigore la strategia di Kissinger all’epoca della Guerra Fredda, quando spinse Nixon ad aprire alla Cina in funzione antisovietica. Se si arrivasse ad un’apertura alla Russia in funzione anticinese si ribalterebbe il quadro attuale, isolando la Cina. Ad oggi le condizioni paiono non esserci, tuttavia è un’opzione da non escludere per il futuro.

Se Joe Biden vincesse le elezioni muterebbero i rapporti tra USA e UE?

Sono convinto che i rapporti tra USA e UE non muteranno in modo sostanziale a prescindere dal vincitore delle elezioni. Alcuni concetti espressi in modo brusco dal Presidente Trump erano molto simili alle idee, espresse con maggior dolcezza, dal Presidente Obama: dalle spese in ambito difesa, al ruolo della NATO, alla necessità di maggiore reciprocità negli scambi commerciali e negli investimenti. Potremo assistere a differenze nei toni, ma nei contenuti la politica estera americana è parzialmente indipendente dall’inquilino della Casa Bianca e segue traiettorie di più lungo respiro.

Infine, una domanda che guarda al nostro Paese. Qual è lo stato di salute delle relazioni diplomatiche tra Roma e Washington? Più in generale, l’UE è ancora il primo alleato degli americani?

Lo stato di salute delle relazioni tra Italia e USA è molto buono, come attestano i dati economici e commerciali e le numerose visite fatte dal Segretario di Stato Pompeo nel nostro Paese. Esistono degli argomenti “sensibili” su cui è in atto un confronto ma ritengo saldissimo l’ancoraggio atlantico del nostro Paese, perché costitutivo del nostro essere italiani. I rapporti tra USA e Italia, e tra USA e UE, sono saldi e in buona salute, nonostante alcune situazioni contingenti che facciano emergere alcune normali divergenze di vedute. Non guasterebbe, sia da parte delle istituzioni europee che di quelle italiane, una maggiore comprensione di alcune delle richieste americane, soprattutto rispetto ai rapporti con la Cina, partendo dal presupposto che con gli USA non condividiamo solo interessi economici e politici, ma un insieme di princìpi e valori democratici e di libertà che caratterizzano le nostre democrazie e il nostro essere comunità.

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