La politica delle leadership è una cosa seria, e non può valere solo nei giorni pari o solo a stagioni alterne.
Per capirci. Sarebbe un gravissimo errore di grammatica e di sintassi politica ritenere che un leader debba essere “esposto” solo durante la campagna elettorale e che poi, a elezioni passate, possa allegramente ricominciare la cacofonia di voci dietro di lui o di lei.
L’errore, in questo caso, sarebbe madornale, in primo luogo perché, nella nostra “likecrazia”, nella nostra turbopolitica ipermediatizzata, la campagna elettorale non finisce mai, ben al di là di uno specifico turno di voto.
E allora? E allora chi vuole davvero aiutare un leader (di maggioranza o di opposizione) dovrebbe accettare, con intelligenza e continenza, di svolgere un ruolo diverso, anche parlando meno, anche facendo un passo laterale. Chi è in grado, dovrebbe svolgere un ruolo di suggerimento, di consiglio, di collaborazione all’elaborazione della strategia. Altri, in base agli incarichi ricoperti, dovrebbero dedicarsi a un ruolo di lavoro parlamentare. Altri ancora, a un ruolo di partito e organizzativo. Pochi e selezionatissimi (e ovviamente sintonici con il leader), infine, dovrebbero essere delegati a un ruolo di comunicazione: possibilmente, tentando sempre di far avanzare la propria agenda, anziché favorire l’agenda o le contromosse altrui.
Purtroppo, però, nella politica la malattia della vanità è la più diffusa. E non c’è modo di contenere l’ego di figure grandi, medie e piccole. Le quali, immancabilmente, in presenza di una telecamera, sono pronte praticamente a tutto, spesso ignorando le conseguenze di ciò che stanno per dire, e altre volte -invece- addirittura compiacendosene preventivamente, nel senso che un’eventuale polemica consentirà un paio di giorni di ulteriore bivacco sul palcoscenico mediatico.
Peccato che ciò non aiuti affatto il leader né la causa (di governo o di opposizione) che si vorrebbe sostenere. La politica, proprio come la realizzazione di un film, richiederebbe infatti talenti e ruoli differenti: quello dello sceneggiatore, quello del regista, quello dell’attore protagonista, quello degli altri attori, fino a ogni singolo componente della troupe. Non si ricordano produzioni cinematografiche in cui tutti (cameramen, microfonisti, truccatori, tecnici delle luci) abbiano confusamente invaso il set per contendere l’inquadratura all’attore principale. Nella politica, invece, questo tipo di invasione di campo è all’ordine (al disordine) del giorno.