Innovazione
Sovranità digitale: Vincenzo Di Nicola spiega come e perché raggiungerla, con un occhio all’IA
Di Alessandro Caruso
Master of Computer Science alla Stanford University, ricercatore alla University of California San Diego, laurea in Informatica all’università più antica del mondo, quella dell’Alma Mater di Bologna. Forte della sua esperienza nella Silicon Valley ha anche fondato Conio, la startup per la gestione di criptovalute, classificata da Gartner tra le 5 più innovative al mondo nel settore bancario. Vincenzo Di Nicola è uno dei cervelli in fuga che poi però è tornato alla base, dal 2020, infatti, è la testa della trasformazione digitale dell’Inps. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare perché è tornato in Italia, quali sono le sue prospettive e quelle del paese in tema di transizione e sovranità digitale, e quali le opportunità e i rischi dell’intelligenza artificiale.
Vincenzo Di Nicola, ingegnere informatico, approdato in Italia alla guida dei servizi digitali una PA come l’Inps, ma la sua esperienza professionale si sviluppa in California, nella Silicon Valley. Raccontaci di quel periodo.
«Ho studiato e sono stato ricercatore all’Università della California. Dopodiché ho avuto un’esperienza come tirocinante a Yahoo, quando era ancora la compagnia web più importante al mondo. Quello mi ha cambiato un po’ la vita, perché mi sono reso conto che ciò che facevamo nell’industria impattava milioni, se non miliardi di persone. A quel punto ho lasciato la carriera accademica e mi sono dedicato proprio a quella industriale, al lavoro. Sono stato product manager a Seattle (Redmond) a Microsoft guidando il team di Behavioral Targeting (pubblicità comportamentale). Per il lavoro svolto fui premiato dall’ex consigliere tecnologico di Bill Gates. Ho lavorato anche un po’ in Cina sempre guidando un team Microsoft a Pechino. Dopodiché, tornando in America post-crisi 2007-2008, decisi di mettermi in gioco e che era il momento di lanciare una nuova compagnia. Era un periodo di crisi mondiale come potete immaginare, ma proprio quando c’è crisi ci sono opportunità. Vedevo il mondo degli smartphone crescere con Blackberry, iPhone, e capimmo che era il momento di fondare una startup in ambito di mobile payments. Oggi è un tema normale di uso comune, però all’epoca non lo era per niente. Fummo finanziati da JP Morgan, la più grande banca americana, e dopo quattro anni e mezzo abbiamo venduto quella tecnologia ad Amazon».
Cosa ti ha lasciato quest’esperienza americana?
«Si parla molto di Silicon Valley. Una cosa che però non si conosce è che il fondatore della Silicon Valley è stato William Shockley: creò il transistor, fu premio Nobel per la fisica, ma fu pure una persona molto controversa per le proprie idee da suprematismo bianco. Dopodiché sono arrivati gli hippie alla Steve Jobs, i nerd di Google: persone tutte diverse, però accomunate da un’unica cosa: il fatto che “io ho ragione, so che ce la posso fare e lo dimostrerò”. C’è una specie di titanismo romantico. Ai tempi dei Romani si diceva Omo faber fortunae suae, ovvero l’uomo è fautore della sua fortuna. Ecco, questo è il mantra della Silicon Valley. Un’altra cosa che ho imparato è la fiducia nel prossimo. Se io voglio creare un business con te Alessando, in America, quando ti vedo mi chiedo “come posso fare leva su Alessandro per costruire un qualcosa di grande, di importante, che possa portare benefici a entrambi?”. Lo potremmo definire un utilitarismo costruttivo. In Italia, al contrario, in una situazione simile la prima cosa che mi viene da chiedere è “come Alessandro mi potrà fregare?”». Con queste premesse in Italia è assai difficile costruire in grande.
E sei approdato in INPS. Com’è stato l’approccio con questa realtà, questo colosso del sistema della pubblica amministrazione italiana?
«Ci tengo a dire che lavorare in INPS e in generale nella pubblica amministrazione è glorioso. È glorioso lavorare per il proprio Paese, è glorioso pensare che le proprie competenze abbiano vero impatto sulla gente. Da professore, le mie competenze hanno un fattore di impatto 10. Da imprenditore, impatto 10 al quadrato. Lavorando nella pubblica amministrazione l’impatto è 10 alla terza, 10 alla n addirittura. Quindi quello che noi facciamo nella pubblicizza amministrazione è fondamentale per il nostro Paese e per la crescita».
Ci vuoi parlare del lancio del sito rinnovato del sito dell’INPS a cui hai lavorato?
«Il sito lo abbiamo ricostruito da zero, ora è molto più usabile. Abbiamo vinto anche premi internazionali, addirittura in Australia per la user experience. Abbiamo poi riscritto anche servizi importanti come la cassa integrazione e abbiamo finalmente introdotto anche l’intelligenza artificiale concreta all’interno dell’istituto. È un tema molto caldo di cui si teme, si guarda un poco con sospetto: però in realtà le potenzialità sono enormi e già adesso stanno avendo un impatto positivo determinante all’interno dei servizi dell’INPS».
Che impressioni ti eri fatto dell’INPS digitale prima di mettere mani al rifacimento del sito, dove poteva essere migliorata l’usabilità delle sue risorse?
«Avendola visto da vicino, mi sono reso conto che negli anni ‘80 l’INPS era veramente all’avanguardia mondiale dell’informatica. Toccare con mano quello che l’Inps ha fatto in quegli anni con il direttore dell’epoca Gianni Billia, è veramente una cosa fenomenale. Solo che in Italia si fa fatica a comprendere una cosa: l’informatica non è come il vino, che invecchiando migliora. L’informatica deve essere portata sempre avanti, innovata in continuazione, altrimenti diventa una palla al piede. Quello che è successo è che l’INPS, e credo un po’ come la pubblica amministrazione italiana in generale, negli ultimi 20 anni ha pensato che l’informatica fosse invece un costo e l’ha esternalizzata. È vero ci sono fornitori esterni validi, però è fondamentale tenere il know-how di base all’interno della pubblica amministrazione in modo da poter guidare i fornitori e avere un piano di sviluppo di 5, 10, 20 anni. A me piace molto la storia romana: Giulio Cesare aveva un esercito composto da una base di legionari romani, mentre l’élite era formata anche da mercenari di origine germanica. Ecco la pubblica amministrazione dovrebbe fare la stessa cosa, dotarsi di un core interno formato e capace e richiedere supporto esterno in ambiti tecnologici di punta, là dove sono rare le competenze a livello mondiale, essendo però in grado di direzionare le richieste al meglio».
Molto interessanti questi parallelismi tra l’epoca romana e la struttura della pubblica amministrazione. Tornando a parlare di tecnologia e della sua applicazione nella PA, l’operazione del sito avviene in pieno tsunami della transizione digitale di cui si sta parlando solo nei ultimi tempi, almeno in Italia. Da esperto, qual è il tuo giudizio su come la stiamo vivendo e soprattutto su come la stiamo applicando questa transizione digitale? E quali ne sono i principali ostacoli in Italia?
«I problemi in Italia vanno molto indietro nel tempo. Noi siamo sottoposti a un retaggio culturale ottocentesco, a livello di istruzione, che affonda le radici in Croce e Gentile. Però la cultura progredisce, non è statica: quello che loro sostenevano, ossia la superiorità delle materie umanistiche nei confronti di quelle scientifiche e tecniche, anzi un disprezzo di materie come la matematica, oggi non è più accettabile. Purtroppo abbiamo basato tutta l’istruzione superiore e universitaria su questo concetto e questo andrebbe totalmente rivisto. Tornando un po’ al mondo romano che a me piace davvero tanto, non è che recitare a menadito Gallia est omnis divisa in partes tres ci renda più colti. Quello che era forte dei romani era il Mos maiorum, cioè un set di valori forti (cosa che hanno assorbito gli americani), e soprattutto la forza tecnologica. I romani erano fortissimi in tecnologia. Basti pensare agli acquedotti, al ponte sul Reno (Cesare lo costruì un ponte in dieci giorni duemila anni fa), poi le strade, la crittografia. Queste cose hanno reso forte Roma e noi dovremmo tornare ad assorbirle».
Intelligenza artificiale. Prima era soltanto il titolo di un film di Spielberg di qualche anno fa, adesso lo stiamo vivendo, conoscendo, approfondendo e anche sviluppando. Nell’ambito della pubblica amministrazione, quale può essere il contributo dell’IA?
«Noi già adesso in INPS usiamo l’intelligenza artificiale. Un esempio semplice può essere: non appena nasce un figlio, l’INPS ti può automaticamente avvisare dell’arrivo del bonus. Già oggi con le pensioni l’INPS può comunicare proattivamente al pensionato nei casi in cui ha diritto a prestazioni integrative per aumentare l’importo. Un altro esempio ancora riguarda le PEC. Immagina che nel 2022 ci sono arrivate oltre 5 milioni di PEC. All’INPS ci sono addetti che leggono le PEC dei cittadini e capiscono il tema della richiesta per smistarla al funzionario che può rispondere. Potete immaginare che questo è un lavoro veramente enorme e anche un po’ alienante. Noi abbiamo introdotto un sistema di intelligenza ufficiale, molto efficiente, già adesso in produzione in molte città d’Italia, che capisce con grande precisione il tema delle PEC e le smista automaticamente al funzionario che può lavorarle. Questo lavoro è stato premiato anche dall’UNESCO nella top 10 mondiale dei progetti che fanno ampio uso di intelligenza artificiale e che supportano i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU».
In Italia, come siamo messi in generale a livello di competenze sull’intelligenza artificiale rispetto anche ad altri paesi?
«Purtroppo non siamo messi bene. Pensiamo un po’ all’università: non ci sono purtroppo poli di eccellenza tecnologica in quanto informatica e software in Italia. Un ragazzo bravo oggi non sogna di studiare in Italia, ma sogna la Silicon Valley, oppure in Europa sogna Cambridge, o anche l’ETH di Zurigo. Senza di questo diventa difficile andare avanti. Quello che potremmo fare è riportare i talenti indietro, come fece tra l’altro la Cina. Però ci vuole un piano a lungo termine. In aggiunta l’intelligenza artificiale pone un problema: noi rischiamo di essere dominati da questa tecnologia, spesso in mano a compagnie straniere. Se guardiamo quello che ha fatto OpenAI (la compagnia dietro ChatGPT), è fenomenale, o quello che fa Google, o Microsoft. Tutte compagnie americane. Se non abbiamo competenze interne forti per poter dominare con competenze nostre in Italia l’intelligenza artificiale, saremo ancora più sottoposti a queste compagnie straniere. Il motivo è semplice: oggi se analizziamo un prodotto software, questo viene creato, rilasciato, e poi preferibilmente migliorato ogni tanto. Un prodotto che si basa sull’intelligenza artificiale, invece, deve essere sempre monitorato e raffinato costantemente nel tempo: il lavoro di gestione non finisce mai. Quindi questo è un prodotto migliore, più sofisticato ma che richiede sempre costante supervisione e manutenzione. Se tu queste competenze non le hai, deleghi ancora di più questo know-how, questo potere, ad attori stranieri. E l’Italia, se vuole davvero pensare a raggiungere la sovranità digitale, deve capire che queste competenze deve avercele in loco. Quindi occorre partire dall’università e puntare anche molto sulle imprese private, perché molta ricerca applicata si fa a livello privato».
Hai l’impressione che in Italia abbiamo davvero compreso come sfruttare l’intelligenza artificiale?
«Quello che è successo con OpenAI e ChatGPT, è stato un cultural shock, perché fino a poco tempo fa si pensava che l’intelligenza artificiale fosse un qualcosa di distante e che i lavori di creatività fossero appannaggio degli esseri umani. Invece abbiamo visto che l’intelligenza artificiale sta creando saggi, libri anche di buona qualità, musica. In futuro creerà anche video, film e abbiamo già visto immagini che vincono premi internazionali create dall’IA. Questa cosa ha fatto capire che bisogna non rimanere indietro e cercare, invece, di dominare questa tecnologia. l’INPS lo sta facendo e so che anche altre pubbliche amministrazioni se ne stanno occupando. Quello che manca sono le competenze. Nel lungo periodo non puoi pensare di essere costantemente dipendente da compagnie americane o cinesi».
Ricordo una tua intervista in parlavi del modello Enrico Mattei. Non sei il solo, visto che recentemente Mattei è stato rievocato anche in ambito politico parlando del piano energetico. Cosa ti affascina di questo personaggio?
«Mattei secondo me è un eroe che dovrebbe essere incensato al pari di Giuseppe Garibaldi. Ogni città dovrebbe avere una statua di Enrico Mattei. Lui era una persona che veniva dalla campagna marchigiana e ha lavorato duramente. Ha portato poi le sue competenze del mondo privato nel pubblico perché ebbe la fortuna e l’opportunità, a 40 anni, di prendere in carico l’Agip. Lui si era reso conto che l’Italia aveva bisogno di risollevarsi dopo la guerra e cercò di portare avanti un piano di indipendenza energetica. Una cosa da titano: lui contro tutti e contro tutti, contro quello che uno potrebbe pensare dell’Italia, un Paese che non ha le risorse energetiche. Eppure Mattei riuscì a risollevare l’Agip, fondare l’ENI, stringere accordi con altri paesi dell’Africa, del Medio Oriente, e portare l’Italia nel novero delle potenze industriali e energetiche del mondo. Con la giusta determinazione, ci insegna la storia di Mattei, si possono raggiungere risultati inimmaginabili e di proporzioni enormi, come la sovranità energetica.
Oggi si parla di sovranità digitale e purtroppo alcuni fatalisti pensano sia un miraggio. Basta invece ispirarsi a Enrico Mattei per capire che la realtà la plasmiamo noi e, soprattutto, che nulla ci è precluso».