Politica
Taglio Parlamentari: le condizioni del Pd per il sì al referendum
Di Andrea Maccagno
C’è chi dice “sì, ma…” e stiamo parlando del Pd, la cui posizione finale sul referendum costituzionale del 20 e 21 settembre ancora non appare chiara. Ufficialmente i Dem sono schierati per il sì alla riforma ma, appunto, con condizionalità. Vediamo quali.
Anzitutto è bene ricordare come il Pd è arrivato a dire sì alla riduzione del numero dei parlamentari. Fatto questo insolito, visto che in ben tre letture su quattro i Dem hanno votato “no” a tale taglio della rappresentanza.
L’ultimo sì era da lasciapassare per dare l’avvio al Conte II. Ma non doveva essere gratis. Il sì Dem sarebbe stato condizionato ad altri “sì” che la nuova maggioranza avrebbe dovuto dire. E cioè: estensione dell’elettorato attivo per il Senato; modifica della base territoriale per l’elezione del Senato; riduzione del numero dei delegati regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica; nuova legge elettorale proporzionale. A un mese dal referendum, a che punto sono queste riforme?
Lo diciamo subito: nessuna ha la possibilità di diventare legge prima del 20 settembre. Ciò sta agitando le acque del Pd, diviso tra chi è contrario tout court alla riforma, chi sperava di poter dire sì dopo i suddetti correttivi e chi è per il sì fiducioso che prima o poi le promesse vengano rispettate. Auguri, verrebbe da dire.
Ad ogni modo, la proposta di legge costituzionale con l’iter ad oggi più avanzato è quella sull’estensione dell’elettorato attivo del Senato. Stiamo parlando dell’ AC 1511 a prima firma Bruno Bossio, che modifica l’articolo 58 della Costituzione correggendo non solo l’età minima di chi può votare (da 25 a 18 anni) ma anche di chi può essere votato (da 40 a 25 anni, cd “elettorato passivo”).
Il testo, approvato dalla Camera in prima lettura lo scorso 31 luglio 2019 con 492 voti favorevoli e 7 astenuti, è ora in sede di relazione al Senato. Qui l’AS 1440 ha già subito una modifica in I Commissione. Infatti, è rimasto l’abbassamento di età da 25 a 18 anni per l’elettorato attivo, ma è stata soppressa la proposta di diminuzione dell’età per l’elettorato passivo: si rimarrebbe pertanto eleggibile come senatore a 40 anni.
Certo, se Palazzo Madama votasse questo testo così modificato, alla Camera si tornerebbe ad una prima lettura, essendo in Italia in vigore il bicameralismo paritario. Quindi bene, ma non benissimo per i dem che si aspettavano una riforma sull’estensione dell’elettorato prima del referendum.
Ancora peggio per chi voleva il cambiamento della base territoriale per l’elezione del Senato e la modifica del numero dei delegati regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica. Ci riferiamo qua all’AC 2238, cioè alla proposta di legge costituzionale presentata dall’On. Fornaro lo scorso 6 novembre 2019.
L’idea è quella di modificare l’articolo 57 della Costituzione, trasformando la base elettorale del Senato da “regionale” a “circoscrizionale”, così da rendere più flessibile una qualsiasi legge elettorale da adottare per l’elezione di Palazzo Madama. E di modificare l’articolo 83 della Costituzione, riducendo da 3 a 2 il numero dei delegati regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica (la Valle d’Aosta rimarrebbe a 1). In questo modo verrebbe ristabilita la proporzionalità tra numero di parlamentari – se ridotti con l’approvazione del referendum – e di delegati regionali.
Anche la proposta di legge costituzionale Fornaro, però, è ferma in I Commissione alla Camera dal novembre 2019 ed è impossibile possa trovare luce prima del referendum. Ci riuscirà almeno l’ultima “condizione”, cioè la legge elettorale?
Difficile possa accadere nel giro di un mese, al massimo ci si può accontentare del voto positivo in uno dei due rami del Parlamento. Ma viste le diatribe sulla soglia di sbarramento anche questa opzione sembra impraticabile. Certo, la legge elettorale è legge ordinaria, quindi non è richiesta una doppia lettura. Rimane però il dubbio, per chi si dichiara contrario al quesito referendario, se sia giusto rimettere la bontà di una riforma costituzionale – quella sulla riduzione del numero dei parlamentari – all’approvazione di una legge ordinaria (quella elettorale).
Ad ogni modo, il testo in questione è quello del Presidente della Commissione Affari Costituzionali di Montecitorio, Giuseppe Brescia. Stiamo parlando dell’AC 2329 in discussione in Commissione dal gennaio 2020.
La volontà della maggioranza sembra essere quella di un tuffo indietro alla Prima Repubblica, con l’introduzione di un nuovo proporzionale. Più precisamente di un “germanicum” all’italiana, visto la soglia di sbarramento fissata al 5%.
Ed è proprio su tale soglia che la nuova alleanza giallo-rossa si è incastrata. Infatti, se inizialmente i partiti della maggioranza sembravano tutti (chi più chi meno) d’accordo, col passare del tempo e dei sondaggi sono sorti i primi malumori. Senz’altro quelli di LeU, non sicuri di raggiungere tale cifra (nel 2018 a mala pena superarono la soglia del 3%, ottenendo il 3,4% dei consensi). Ma soprattutto quelli di Renzi, per il quale il 5% è ad oggi un miraggio.
Nonostante ciò, Pd e M5S sembrano voler chiudere, magari riducendo la soglia al 4%. Una chiusura che, seppure arrivasse, sarebbe comunque post referendum. Delle 4 condizioni poste, dunque, il Pd non è riuscito ad ottenerne neanche una.
Cosa rimane allora del sì del Pd al Referendum?