Ambiente

Pulito e abbondante, ecco perché conviene estrarre anche il gas italiano

03
Marzo 2023
Di Alessandro Caruso

«Il gas estratto dai giacimenti nazionali ed immesso in rete, se paragonato a quello che deve compiere migliaia di chilometri per raggiungere le nostre utenze, comporta emissioni totali lungo la filiera del 20-30% inferiori», lo spiega Antonino Caliri, Head of Public Affairs & Communication di Energean, la società che estrae gas, e tanto, anche in Italia. E che tra poco metterà in produzione il più grande campo a gas italiano di sempre, quello nel canale di Sicilia, che immetterà in rete oltre un miliardo di metri cubi di gas. Cosa vuol dire? Che le strategie energetiche nazionali potranno considerare, a parità di consumi nazionali, circa 1 miliardo di mc di gas in meno da importare dall’estero. Non pochi. Ma Caliri, esperto conoscitore dell’approccio istituzionale a queste tematiche avverte: «È importante una programmazione di lungo termine per le imprese che operano in questo campo, che garantisca stabilità e certezza del diritto».

Energean estrae gas anche in Italia. In questo momento segnato dalla crisi energetica, quanto pensa che potrebbe influire sul fabbisogno nazionale l’attività estrattiva nei nostri giacimenti?
«L’Italia è un paese che storicamente ha sempre avuto una vocazione mineraria, sin dagli albori pionieristici dei primi anni ‘40. Solo focalizzandoci sugli ultimi 25 anni di attività, il nostro Paese è passato da volumi di produzione di gas di ca. 20 miliardi di metri cubi, al record negativo mai registrato prima di soli 3,4 miliardi, nell’anno appena concluso, incrementando dunque la dipendenza dall’estero da circa il 75% dei primi anni duemila ad oltre il 96%, con un profilo totale di consumo pressoché invariato nel ventennio. Un mix energetico più bilanciato nel quale la quota nazionale non sia relegata ad un ruolo meramente marginale potrebbe avere degli effetti positivi sia sulla bilancia commerciale, ma anche in termini di ricadute occupazionali, erariali ed anche ambientali. Studi hanno, infatti, dimostrato che il gas estratto dai giacimenti nazionali ed immesso in rete, se paragonato a quello che deve compiere migliaia di chilometri per raggiungere le nostre utenze, comporta emissioni totali lungo la filiera del 20-30% inferiori».

Cosa potrebbe cambiare con la messa in produzione dei giacimenti nel Canale di Sicilia?
«Si tratta dei più grandi campi a gas italiani, in termini di volumi, che da soli consentiranno di immettere nella rete italiana oltre 1 Miliardo di mc di gas all’anno, che se confrontati con il livello di produzione nazionale attuale rappresentano circa un +30%, dunque un contributo davvero importante, riducendo l’esposizione verso i paesi terzi da cui importiamo gas. Insomma, in altre parole, a parità di consumi nazionali di gas, si tratterà di 1 miliardo di mc in meno che il Paese dovrà importare dall’estero. L’intera area offshore presenta, inoltre, un considerevole potenziale minerario, già accertato, che potrà essere oggetto di ulteriori sviluppi nel medio termine, al fine di prolungare in maniera stabile e duratura questa fornitura di gas nazionale».

Il tema delle forniture di gas dallo scorso anno è balzato drammaticamente in cima all’agenda politica. Questo ha comportato dei cambiamenti nel modo di organizzare il pubblic affairs nel vostro settore?
«Sicuramente il tema è diventato di grande attualità e ci ha consentito di avere una maggiore attenzione e sensibilità presso i decisori politici, tuttavia trattandosi di un business con ingenti investimenti privati e che opera su orizzonti temporali dell’ordine di lustri, la materia non può essere demandata ad una mera presa di coscienza di qualche mese. È importante una programmazione di lungo termine, che garantisca stabilità e certezza del diritto».

In che modo il Pitesai approvato a febbraio 2022 ha impattato sulle vostre attività?
«Gli impatti sono stati pesanti. Del nostro portfolio di titoli minerari, circa 50 tra concessioni di coltivazione e permessi di ricerca, l’85% risulta in un modo o nell’altro impattato dal Pitesai. Questo ha creato grande incertezza nella programmazione degli investimenti, specie per quegli asset che necessitano di interventi di ripristino e manutenzione, anche con esiti minerari talora incerti, e per i quali dunque non si può procedere o con grandissimi limiti. Tutto ciò contribuisce al rapido declino produttivo, nonostante talora vi siano potenzialità residue sfruttabili».

Secondo lei la normativa poteva essere strutturata meglio?
«Un maggior dialogo con gli operatori di settore avrebbe consentito di definire delle linee guida che pur perseguendo la finalità della transizione ecologica, avrebbero permesso una armonizzazione con l’attuale potenziale minerario italiano. L’atlante delle aree idonee non tiene infatti in debito conto alcuni aspetti tecnici e le potenzialità o le complessità del comparto minerario, cavalcando, in taluni casi, scelte prettamente ideologiche».

Energean da tempo sostiene la necessità di perseguire una strategia di cooperazione internazionale in ambito energetico che si concentri sul bacino del Mediterraneo. Ci spiega cosa intendete?
«Energean è la principale azienda indipendente attiva nell’ambito dell‘estrazione del gas con un focus sul bacino del mediterraneo ed attività in 6 paesi. Sviluppiamo, tra l’altro, progetti di produzione di gas in Israele ed Egitto. Operando in tali geografie balza evidente la loro salda convinzione sull’ importanza di favorire gli investimenti nell’ambito della sicurezza energetica. Inoltre, la possibilità di attrarre investimenti, rilanciare i territori dove operiamo, e ridurre le emissioni sono i principali driver culturali che riscontriamo in tali geografie. Riteniamo dunque che combinando questo mix tipico dei paesi dell’area del mediterraneo orientale con le necessità di stabilità di fornitura di un mercato energivoro come quello Europeo ed italiano su tutti, si possa creare una cooperazione virtuosa. Inoltre, anche in ottica di diversificazione delle rotte energetiche di importazione del gas, poter investigare la possibilità di approvvigionamenti anche da tali aree può avere un indubbio valore, nella riduzione del rischio geopolitico, come il recente conflitto russo-ucraino ha evidenziato».

Lei in passato si è occupato anche di infrastrutture per il trasporto e stoccaggio del gas. A suo giudizio le infrastrutture italiane sono adeguate?
«Dal punto di vista della capacità di stoccaggio l’Italia, con circa 15 Miliardi di mc, è tra i paesi europei quello con la maggiore capacità disponibile e il settore dello stoccaggio di gas rappresenta un tassello indispensabile nel complesso scacchiere delle infrastrutture del gas. Dal punto di vista della rete di trasporto i circa 35 mila chilometri di metanodotti rappresentano le arterie attraverso cui il gas raggiunge i punti di snodo, tuttavia l’attuale nuovo equilibrio in termini di punti di approvvigionamento con un fortissimo sbilanciamento (oltre 50%) verso il sud Italia (per il gas proveniente da Libia, Algeria e Azerbaijan) e un consumo invece concentrato nel Nord Italia crea colli di bottiglia che potrebbero rappresentare dei punti di fragilità da valutare con estrema cura».

È soddisfatto dell’interlocuzione avviata con il nuovo estabilishment politico? 
«Sicuramente l’indirizzo dato dal nuovo governo con questi primi atti normativi, fra tutti il Decreto Aiuti 4 che individua alcune aree strategiche per consentire i progetti di sfruttamento delle riserve a gas ubicate nell’offshore italiano, rappresenta una tangibile indicazione della volontà politica che ci fa essere ottimisti. Ovviamente per dare seguito a quanto di buono fin qui fatto, bisogna declinare queste norme in una serie di decreti attuativi ad oggi mancanti o bloccati, senza i quali non si può procedere col cantierizzare gli ingenti investimenti e dare quindi concretezza agli impegni. È, infatti, indispensabile chiarire prontamente agli investitori privati quali siano i prezzi di ritiro del gas e gli schemi di approvvigionamento che si vuole mettere in campo».

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