I dati definitivi del voto tra gli iscritti dem
E così, il responso ufficiale del voto nei circoli del Pd c’è stato. Alle primarie tra gli iscritti, completati i congressi di circolo anche in Lazio e in Lombardia, dove erano stati posticipati causa le elezioni regionali, Stefano Bonaccini è primo (52,9%, pari a 79.787 voti), Elly Schlein seconda (34,9%, pari a 52.637 voti), mentre gli altri due (Gianni Cuperlo: 8%, 12.008 voti; Paola De Micheli: 4,3%, 6475 voti) restano tagliati fuori e dovranno dare, al più presto, indicazioni di voto (De Micheli dovrebbe esprimersi per Bonaccini, Cuperlo dovrebbe farlo, invece, per la Schlein).
Vincerà il partito della provincia o delle città?
La vittoria di Bonaccini sulla Schlein (lontanissimi gli altri due contendenti, ormai esclusi dalla corsa) sembra netta, rotonda, a prima vista, ma nasconde una serie di insidie. E non solo perché la differenza, che pare alta in termini percentuali (18 punti di distanza) non lo è in termini di voti assoluti (appena 27 mila voti). La vittoria finale, quella nei gazebo, non dipenderà solo da quanti elettori e militanti dem andranno a votare, domenica prossima, 26 febbraio (si prevede brutto tempo, pioggia e gelo in tutt’Italia, non il massimo per uscire di casa e riempire i gazebo), ma anche da chi (quali zone, province, città e regioni) andranno a votare e per chi. Tradotto: vincerà il partito della provincia profonda e delle regioni centrali (quelle ‘rosse’) come di quelle periferiche, tutte pro-Bonaccini, oppure il partito delle città (quello delle ztl), a partire dalle città più grandi, molte pro-Schlein? Per capirlo – pur senza avere virtù divinatorie – conviene partire dai dati dei circoli e analizzarli.
Le possibili proiezioni sul dato dell’affluenza
Innanzitutto, il numero complessivo. Hanno votato 151.530 iscritti al Pd. Considerando, pur se a spanne, che una parte di iscritti non ha votato, vuol dire che il Pd chiuderà il tesseramento 2023 a quota 200 mila iscritti, non di più. Nel 2021 erano 320 mila, quasi meno della metà si sono persi, come volatilizzati per strada, e dopo mesi di campagna elettorale battente per le primarie. Da qui deriva il primo grande interrogativo, quello sull’affluenza alle primarie ‘aperte’. Chi pensava che avrebbe potuto superare il milione di votanti si è già ricreduto. Sarà un miracolo se saranno in 800 mila a recarsi nei seggi (circoli, gazebo, centri culturali, etc.) per versare l’obolo di due euro, sottoscrivere una lettera in cui ci si proclama elettori del Pd e votare un candidato.
Tutti i dati delle precedenti elezioni primarie
Del resto, la relazione – e la relativa moltiplicazione – tra iscritti ed elettori è palese. Nel 2019, alle primarie che elessero Zingaretti, votarono 189.101 iscritti e 1.569.628 elettori. Nel 2017, quando Renzi vinse per la seconda volta, gli iscritti votanti furono 266.726 e i votanti 1.838.938. Nel 2013, quando Renzi vinse per la prima volta, i tesserati votanti furono 296.645 e gli elettori 2.814.881. Nel 2009, quando fu incoronato Pier Luigi Bersani erano andati a votare prima 462.904 iscritti e 3.067.821 elettori. Nel 2007 furono 3.554.169 i votanti alle primarie che elessero Walter Veltroni primo segretario (qui manca il numero degli iscritti perché, all’epoca, il Pd era appena nato). Se ne evincono tre dati. Il calo degli iscritti è davvero drammatico (si passa dagli 831.042 iscritti registrati nel 2009 ai 320 mila iscritti del 2021 con un veleggiare che, dai 500 mila iscritti del 2013 crolla a 370 mila già nel 2015). Il calo dell’affluenza alle primarie aperte è costante, un vero stillicidio: al netto delle primarie di coalizione del 2005 (Prodi) e del 2012 (Bersani), le primarie di partito si tengono sopra i tre milioni di votanti solo fino al 2009, crollano a 1.800 mila nel 2017 fino al milione e 500 mila del 2019. Il terzo dato, fino a ieri ovvio, ma che oggi non lo è più, è che chi vince il primo ‘giro’, quello tra gli iscritti, vince sempre anche il secondo giro, quello tra i votanti. Di solito, migliorando il dato, tranne nel 2009, quando Bersani vince tra gli iscritti con il 55% (255.189 voti) e scende al 53,1%% tra gli elettori (1.603.531 voti) mentre Franceschini, secondo, passa dal 36,9% (171.041) al 34,3% (1.035.026) e Ignazio Marino aumenta dal 7,9% al 12,5%. Nel 2013 Renzi fa il suo primo exploit: passa dal 45.3% (133.892 voti) al 67,5% (1.895.332) tra i votanti mentre Cuperlo crolla dal 39,4% (116.454) al 18,2% (510.970), seguito da Civati (dal 9,4% al 14,2%) mentre Pittella si era fermato (col 5,8%) alla prima fase, quella tra gli iscritti. Nel 2017 nuovo boom di Renzi che vanta il 66,7% tra gli iscritti (176.657) e il 69,1% (1.257.091) tra gli elettori mentre sempre Cuperlo scende dal 25,2% (66.842) al 19,9% (362.691) e Michele Emiliano sale dall’8% al 10,8%. Infine, nel 2019, su 5.693 circoli (oggi sono circa 4 mila) Zingaretti prese il 47,3% (88.918 voti) tra gli iscritti e il 66% (1.035.955) tra i votanti mentre Martina scese dal 36,1% (67.749) al 22% (345.318) tra gli elettori e il terzo arrivato, Giachetti, passò dall’11,1% al 12% mentre in due (Boccia e Saladino) furono esclusi dagli iscritti.
Notato che, dal 2020, alla seconda fase, passano, per modifica regolamentare, solo i primi due e non, come è sempre stato fino a ieri, i primi tre, se le stime dell’affluenza (800 mila-1 milione, e sono le più rosee) verranno confermate, il vincitore, questa volta, vincerà con meno della metà dei voti che prese Zingaretti tra gli elettori. I votanti potrebbero, inoltre, essere meno dei voti che prese Franceschini, arrivato secondo, nel 2019 (un milione), il vincitore di domenica potrebbe vedere come un miraggio i voti arrisi a Cuperlo nel 2013 e nel 2019 (500 mila e 360 mila voti), schiacciato da Renzi, e via di questo passo, in una cupio dissolvi di mancata partecipazione.
La geografia del voto regione per regione
Ma veniamo, ora, alla ‘geografia’ del voto e a cosa dice dei due ‘partiti’, quello di Bonaccini e quello di Schlein, che si fronteggiano, l’un contro l’altro armati. Dal punto di vista del voto nelle 20 regioni italiane, e restringendo l’analisi solo ai voti arrisi a Bonaccini e quelli presi dalla Schlein, sembra proprio che non ci sia partita, almeno in alcune regioni. In Abruzzo, Bonaccini vince 61,8% contro 32,7%, in Basilicata 52,3% contro 18%, in Calabria 52,6% contro 21,3%, in Campania, addirittura, Bonaccini prende il 70,9% contro il 24%, e in Sardegna il 70,1% contro il 19,2%. Le regioni del Sud stanno tutte con lui, tranne la Sicilia, dove vince di misura (46,2% contro 38%) e la Puglia dove la vittoria (50,5%) vede comunque la Schlein ben piazzata (40.6%). Diversa la situazione nelle regioni del Nord, dove i due schieramenti quasi si equivalgono: in Piemonte Bonaccini vince con il 48,9% contro il 40,6%, in Lombardia è un semi-pareggio (44,8% contro 38,5%) mentre in Liguria vince, nettamente, la Schlein (54% contro 38%) e in Veneto è un passo dietro (41,6% contro 46,3%). Anche nelle regioni rosse, o ex rosse, gli equilibri sono più misurati: tranne per l’Emilia-Romagna (60,1% Bonaccini, 28,7% Schlein), in Toscana è un testa a testa (49,5% contro 44,4%), le Marche dicono 55,9% contro 34,8% e solo in Umbria si impone, Bonaccini, con il 55,3% contro il 37,4%. Invece, in Lazio, è un vero testa a testa: 44.6% per Bonaccini contro il 42,5% a Schlein. Restano fuori dal computo le regioni dove, nel Pd, si vota poco: il Molise (stravince Bonaccini), il Trentino (vittoria di misura), la Valle d’Aosta (quasi pari).
Il successo della Schlein nel voto delle città
Il vero ‘miracolo’ la Schlein lo compie nelle città, specie quelle grandi, dove vota il ‘partito’ delle ztl e poco più, ma che potrebbero essere anche le ultime enclave che trascinano gli elettori dem ai gazebo. La pasionaria dem si afferma a Milano (43,6% contro 36,9%), va molto bene a Roma città (44,6% contro il 38% di Bonaccini, e qui si afferma anche in quartieri periferici), è prima, con buoni numeri, a Napoli (di pochissimi voti), Rovigo, Venezia (con ottimi numeri: 51,6% contro 35,6%), Lecce, Genova, L’Aquila, La Spezia, Catania, Verona, Siena, Pisa (in totale, si tratta di ben 30 capoluoghi di provincia).
Certo, vincere, per Schlein, sarebbe un miracolo e non solo per la ‘tradizione’ che vuole che chi si afferma nei circoli poi vince anche nei gazebo. Il controllo, più o meno ferreo, nelle regioni del Sud (i governatori di Campania e Puglia, De Luca ed Emiliano, sono schieratissimi con il governatore), che portano sempre un buon numero di votanti (alcuni, come si sa, assai ‘sospetti’), la primazia nelle regioni rosse (non solo l’Emilia-Romagna, ma anche la Toscana di Giani) e il sostegno della fila più consistente di amministratori locali, che annoverano ancora oggi molti esponenti dem e che, da Bergamo a Bari, passando per Pesaro, Torino, Firenze e Roma, sono schierati con lui, dovrebbero far dormire sonni tranquilli a Bonaccini. La teoria del comitato Schlein (“ora si riparte da zero a zero, le primarie aperte sono una nuova partita”) è vera, cioè, solo in piccola parte. Ma è pur vero che, con un’affluenza assai bassa (non sembri un paradosso, anzi), l’elettorato che si mobilita e va concretamente a votare è sempre quello più ‘radicale’ e, dunque, più affine a lei.
I sondaggi e come potrebbe finire la contesa
Il Nazareno, ottimisticamente, parla di un rapporto “di uno a nove” tra primarie degli iscritti e primarie aperte, e calcola, su 151 mila votanti tra gli iscritti, un milione e 300 mila votanti. Sarebbe una cifra bassa, la più bassa in assoluto, ma ancora dignitosa. Più sale, più la vittoria di Bonaccini sembra già messa nella ghiacciaia. Più scende, più la Schlein potrebbe avvicinarsi al colpaccio. I sondaggi, ovviamente, sono univoci. Dall’ultima rilevazione Emg per Agorà emerge infatti che il 64% degli elettori dem reputa Bonaccini il miglior segretario possibile contro il 36% di Schlein. Mentre, per l’istituto Izi, la distanza sarebbe più ravvicinata ma di sicurezza: il primo prenderebbe il 54,2%, l’altra il 45,8. Ma i sondaggi, come si sa, non sempre ‘ci prendono’. Una cosa è certa. Una vittoria di Bonaccini di certo garantisce di più, in prospettiva, l’unità del partito e la Schlein sconfitta potrebbe essere coinvolta nella gestione futura non in segreteria, dove gli uomini-chiave saranno tutti di stretta nomina del governatore, diventando la capogruppo del Pd alla Camera. Invece, in caso di vittoria della Schlein, al netto di Bonaccini stesso – che di certo resterebbe nel Pd a “dare una mano”, come ha sempre detto – un pezzo dell’ala riformista che pure lo appoggia potrebbe essere ‘tentato’ dall’andarsene da un partito spostato su posizioni troppo ‘radical’ e confluire nel Terzo Polo. Dove, non a caso, hanno deciso di attendere il 27 febbraio per discutere della futura Federazione unitaria tra Azione e Iv e come farla, perché potrebbe arrivare, e sarebbe la benvenuta, un pezzo in più, cioè pezzi dell’area riformista. Renzi, che crede nella vittoria di Bonaccini per ripristinare rapporti di ‘buon vicinato’ con il Pd, non aspetta che quello. In tal caso, è ‘win-win’…