Dubbi per la proroga dello stato di emergenza. Passaggi parlamentari invocati. Timori per mani troppo libere e deroghe troppo ampie. Diversi nodi portati al pettine che, forse, dovrebbero portarci alla domanda di base: sicuri che quella che abbiamo vissuto, e stiamo tuttora vivendo, sia un’emergenza di protezione civile – da gestire con gli strumenti previsti per questo tipo di situazioni eccezionali – e non un’emergenza di sanità pubblica, con le conseguenti norme di riferimento?
Se partissimo da qui, tutto il dibattito di questi giorni dovrebbe essere capovolto o percorrere strade diverse. Oggi siamo a questo punto perché in Italia si è deciso, a inizio anno, con la delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio, di “etichettare” la gestione della situazione che all’epoca era solo agli inizi come una “emergenza di protezione civile”. Attivando, quindi, tutti gli strumenti previsti dal Codice in materia (il decreto legislativo n. 1 del 2 gennaio 2018, recentemente aggiornato), partendo dalle delibere del Consiglio dei Ministri e finendo con le ordinanze in deroga (che, però, hanno dei chiari limiti e sicuramente non possono incidere sui principi fondamentali della Costituzione). Norme che sono pensate per coordinare l’azione del Servizio nazionale della protezione civile in relazione, in particolare, ai rischi sismico, vulcanico, da maremoto, idraulico, idrogeologico, da fenomeni meteorologici avversi, da deficit idrico e da incendi boschivi (art. 16, comma 1 del Codice, per chi volesse).
Il settore igienico-sanitario? È inserito nello stesso articolo 16 del Codice, al comma 2 però (accanto, tra gli altri, al rischio chimico, nucleare, radiologico, tecnologico, industriale, ambientale), nel quale si fa questa esplicita premessa: “ferme restando le competenze dei soggetti ordinariamente individuati ai sensi della vigente normativa di settore e le conseguenti attività, l’azione del Servizio nazionale è suscettibile di esplicarsi” anche per questi rischi. Ma, lascia intendere la norma, come intervento di supporto.
Forse si pensò, a inizio anno, di seguire quanto fatto nel 2003, quando all’allora Capo del Dipartimento della Protezione Civile, Guido Bertolaso, venne affidato l’incarico di “promuovere tutte le iniziative idonee a ridurre il rischio di diffusione del virus responsabile della Sars”: in primo luogo, si legge ancora oggi sui siti istituzionali, “l’adozione di ulteriori misure sanitarie mirate a un controllo preventivo più efficace negli scali internazionali italiani. Anche all’epoca, in caso di necessità i Centri di Riferimento in Italia sarebbero stati l’Ospedale Spallanzani di Roma e il Sacco di Milano.
Stesso inizio di questo 2020, con però una diffusione del virus imparagonabile. E uno scenario che, in meno di un mese, aveva preso una piega che nessuno avrebbe voluto affrontare.
Diciassette anni fa la situazione non richiese di intervenire così pesantemente su diritti costituzionalmente garantiti come avvenuto tra marzo e maggio, nel periodo del lockdown. E non è mai avvenuto neppure nelle passate emergenze, essendo esplicitamente previsto il fatto che le deroghe possono esserci solo se nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico e delle norme dell’Unione europea.
Prima di gettare alle ortiche, per l’ennesima volta, norme pensate per affrontare le “classiche” emergenze di protezione civile perché “manchevoli”, forse dovremmo chiarirci se erano queste le “regole del gioco” da porre come base.
Francesca Maffini
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