Salute
Dopo il Covid arrivano i superbatteri, ma all’Italia i nuovi antibiotici non piacciono
Di Gaia De Scalzi
Archiviata (per ora) la Fase 1, siamo (finalmente) passati alla Fase 2. Ma forse con troppo entusiasmo. Se da un lato possiamo affacciarci timidamente alla normalità – complici le riaperture di bar, palestre e negozi – dall’altro ci troviamo di fronte ad un’ennesima, nonché probabile, conseguenza di questa pandemia: l’antibiotico-resistenza (o AMR, Antimicrobial resistance).
Attenzione, non si tratta di un fenomeno recente. Sono anni che la sanità pubblica a livello mondiale sta mettendo in guardia i governi sulle implicazioni connesse all’AMR, sia dal punto di vista clinico (scarse alternative terapeutiche per il trattamento delle infezioni più resistenti, peggioramento del quadro clinico, aumento della mortalità), sia dal punto di vista economico (allungamento delle degenze in ospedale, impatto sul SSN). E l’emergenza Covid potrebbe favorire l’ascesa di questo problema, dando ulteriore impulso a quello che ormai viene considerato un vero e proprio circolo vizioso. Molti pazienti ricoverati per Covid, infatti, hanno ricevuto – anche – una diagnosi di infezione batterica secondaria. Oltre ad essere stati curati per il Coronavirus, circa il 90% dei pazienti è stato sottoposto a trattamenti antibiotici, contribuendo così ad aumentare la pressione selettiva a favorire l’emergere di ceppi resistenti a molti degli antibiotici disponibili e per i quali, quindi, le opzioni terapeutiche si riducono sensibilmente.
Spiegare la resistenza dei batteri agli antibiotici non è cosa facile, soprattutto perché le cause sono tantissime e senza una valida arma, nei prossimi anni, il rischio di morire per colpa di un’infezione potrebbe diventare alto. Basti pensare che – prima dell’arrivo del Covid – le previsioni dell’OMS parlavano di circa 10 milioni di decessi per colpa dei cosiddetti superbatteri entro il 2050. Tra i Paesi europei, come sappiamo, l’Italia ha registrato il maggior numero di casi e di morti attribuibili a infezioni antibioticoresistenti. Un dato tutt’altro che confortante. Se poi aggiungiamo il fatto che l’impatto economico attribuibile all’AMR si aggira già sui 320 milioni di euro e che, senza un intervento in grado di contrastare questo fenomeno, si attesterà intorno ai 2 miliardi di euro nel 2050, la frittata è bella che fatta.
Per evitare dunque un’altra minaccia – che metterebbe in ginocchio il nostro sistema sanitario (già fortemente provato) – bisognerà correre velocemente ai ripari, promuovendo un utilizzo virtuoso degli antibiotici, dentro e fuori dagli ospedali e sostenendo la ricerca affinché si trovino tempestivamente delle alternative terapeutiche in grado di rallentare lo sviluppo di tali resistenze, magari iniziando con il semplificare l’attuale sistema di “Prevention and Research”. Sistema che, ad oggi, nel nostro Paese non favorisce né una rapida introduzione sul mercato di antibiotici di nuova creazione né ne incentiva il loro sviluppo. Un ritardo, anche questo, tutto italiano e – ancora una volta – distante anni luce dalle linee guida dell’Agenzia Europea per i medicinali.
Retroscena (per i più scettici): la compresenza di superbatteri ha contribuito a incrementare il tasso di mortalità sia durante la Spagnola nel 1918 sia durante la suina nel 2009.
Articolo di Gaia De Scalzi pubblicato su Il Giorno Dopo