La notizia politica della settimana è l’uscita di Matteo Renzi dal Partito democratico. Una mossa lungamente attesa e meditata, quantomeno dal referendum del 2016 che ebbe a sancire l’ingloriosa conclusione anticipata della sua prima esperienza a Palazzo Chigi. Contestualmente alla scissione dal Pd, l’ex primo ministro ha annunciato la nascita di Italia Viva, la creatura politica deputata ora a veicolarne le ambizioni nei complicati incastri parlamentari della XVIII Legislatura. La mossa di Renzi può esser letta come il tentativo di dar vita a una formazione sicuramente più moderata rispetto al Pd – che invece si troverà spostato inevitabilmente più a sinistra – capace di intercettare voti e consenso anche presso gli elettori di Forza Italia e +Europa, con l’obiettivo di allargare il perimetro dell’area di riferimento e soprattutto di magnificare la propria forza contrattuale nei confronti degli altri partiti. Quel che colpisce è però il contesto in cui si è consumato lo strappo. Renzi è stato infatti il principale sostenitore estivo dell’alleanza tra Zingaretti e Di Maio, per allontanare Salvini dal potere e garantire al Pd una rinnovata centralità nel prosieguo della legislatura.
Lo strappo si è consumato a pochi giorni di distanza dal giuramento di ministri e sottosegretari del Conte II, seguendo una tempistica che rischia di indebolire fortemente la rappresentanza Dem nell’esecutivo. Inoltre, quando i gruppi parlamentari renziani saranno a regime, i principali azionisti di maggioranza diverranno tre, un dettaglio affatto secondario in vista di appuntamenti cruciali quali, ad esempio, il dibattito sui contenuti della legge di Bilancio. O quando si tratterà di sedersi al tavolo dei negoziati per affrontare il nodo delle nomine. Di qui al 2020, difatti, l’esecutivo dovrà indicare oltre cento manager pubblici, dal Cda dell’Inps fino agli ad di Eni, Enel, Leonardo e Terna. Partite che fino a ieri sarebbero state decise all’interno del perimetro M5s-Pd, ove Renzi era fatalmente ostaggio del doppio filtro partito-governo. E nelle quali potrà adesso ritagliarsi un ruolo da protagonista, scommettendo sul fatto che nel breve periodo né il Pd né il M5s vorranno staccare la spina al governo Conte. In questo modo avrà anche il tempo di preparare il terreno in vista di un altro snodo fondamentale quale l’elezione del capo dello Stato nel 2022. Gli eventi dell’ultimo mese assegnano a Renzi la palma di tattico attualmente più abile della politica italiana, in grado di trarsi dal ruolo di comprimario a quello di mattatore con poche e semplici mosse. I suoi critici lo accusano di aver portato ulteriore disordine in un quadro politico già fortemente complesso e frammentato, contribuendo a spingere il governo in una fase di fibrillazione (prova ne sia l’immediato passo falso in Parlamento sull’autorizzazione a procedere nei confronti del forzista Sozzani) e provocando l’irritazione del premier Conte e del presidente Mattarella. Soltanto il tempo potrà giudicare la bontà dell’azzardo renziano e stabilire se l’ex sindaco di Firenze saprà dismettere i panni del tattico per indossare quelli dello statista. Il fatto che la scissione sia avvenuta proprio in questo frangente è però un’ulteriore conferma che M5s e Pd hanno davvero in programma il ritorno al proporzionale.
Alberto De Sanctis