Politica
Elisabetta ci parla, più “self-restraint” e meno “self-expression”
Di Daniele Capezzone
Molto si è scritto sul ruolo pubblico interpretato dalla regina Elisabetta II, sulla funzione unificatrice esercitata dalla monarchia britannica, su quanto le nostre società divise e ultrapolarizzate abbiano drammaticamente bisogno di momenti di ricucitura, di armonia, di ricordo per tutti che – al di là delle differenze che ci separano – ci sono o ci dovrebbero essere motivi più alti per restare uniti e sentirsi davvero una nazione.
Ma almeno altrettanta attenzione andrebbe dedicata alle virtù “private”, cioè personali, della sovrana appena scomparsa. Ha scritto ieri il Telegraph, opportunamente, che la regina Elisabetta II incarnava le migliori qualità umane pre-Internet. In che senso? Non solo per anagrafe, ma per scelta e attitudine, Elisabetta non faceva le cose per apparire, per partecipare alla nevrosi collettiva del virtue-signalling, per inseguire mode e tendenze, per surfare sulle onde di un’emozione o di un trend passeggero.
Era ciò che era (magari old fashioned, ma credibile: e dunque creduta) proprio perché si muoveva secondo i suoi standard, senza subire quelli altrui, e meno che mai quelli dei media. Rispetto ai quali (inclusi i temibili tabloid britannici) padroneggiava l’arte di essere centrale senza rimanere vittima di scandali e titoli a effetto, diversamente dai membri più giovani della sua complicata famiglia.
Di più. Lo stesso ultrarigoroso rispetto delle forme, l’autodisciplina (formale e sostanziale) che si è autoimposta per settant’anni è un insegnamento che tutti dovremmo considerare.
Ha scritto magistralmente il grande Charles Moore che un comportamento appropriato, il parlare correttamente, il vestirsi in modo adeguato per ogni circostanza, perfino le buone maniere nello stare a tavola, non sono solo capitoli di un’educazione rigidissima, ma, se compresi nel loro senso più profondo e meno esteriore, rappresentano altrettanti segni di attenzione verso gli altri, verso le persone che si incontrano di volta in volta, verso le occasioni e le circostanze (pubbliche o private che siano) in cui si viene coinvolti.
In tempi in cui tutti praticano la “self-expression” (mi devo esprimere, devo essere “autentico”, devo essere “me stesso”), troppe volte dimenticando – con ciò – la stessa esistenza degli altri, la regina Elisabetta II è stata invece la regina del “self-restraint”, del sapersi trattenere, del mostrare a tutti che anche una sovrana può scegliere di dire una parola di meno anziché una di più, rinunciando – apparentemente – a una dose di autoreferenzialità in nome di qualcosa di più significativo e più grande.
Tra tanta retorica e tanta attenzione ad aspetti marginali (la monarchia percepita da qui in termini di melodramma e celebrity mediatica), questo è forse un lascito più significativo, su cui speriamo che almeno qualcuno voglia soffermarsi.