Esteri
Afghanistan: “Non vi dimenticheremo”, l’ultima promessa tradita dell’Occidente
Di Giampiero Gramaglia
“Non vi dimenticheremo mai”, avevamo detto e scritto in occasione della (ri)presa di Kabul da parte dei talebani, che, cacciati dal potere nell’ottobre 2001, erano tornati padroni dell’Afghanistan, quasi senza colpo ferire, dopo vent’anni di presenza militare occidentale (e centinaia di migliaia di morti, in uno stillicidio di episodi di guerriglia, combattimenti e attentati). Un anno fa, gli Stati Uniti e tutti i loro alleati si rendevano protagonisti di una ritirata caotica e tumultuosa, una fuga ignominiosa, senza essere stati capaci di costruire in vent’anni uno Stato credibile, ma solo un governo fantoccio inetto e corrotto.
Non avremmo mai dimenticato – dicevamo – gli afghani che avevano creduto in un Paese nuovo e democratico, soprattutto le donne che avevano sperato nell’istruzione e nel lavoro e che di colpo precipitavano di nuovo nel Medio Evo del burqa e dell’assenza di diritti. Noi ce ne andavamo, loro restavano alla mercé di ritorsioni e abusi.
Invece, ce ne siamo dimenticati. Presi dalla pandemia, dall’inflazione, dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, dell’Afghanistan non parliamo più. Non è una sensazione. È un dato di fatto: dal primo al 15 agosto 2021, giorno del ritorno dei talebani al potere a Kabul, l’ANSA lanciò 198 serie di notizie con il titolo sull’Afghanistan (e 311 che parlavano di Afghanistan); dal primo al 10 agosto 2022, gliene ha dedicate sette, oltre a una trentina di dispacci in cui si cita l’Afghanistan, ma in relazione all’uccisione con un drone a Kabul del leader di al Qaida Ayman al Zawahri, eliminato il primo agosto mentre era sul balcone dell’appartamento in cui s’era imprudentemente installato.
L’eliminazione di al Zawahri è stata presentata come un successo dell’intelligence statunitense. Ma è stata anche una conferma dell’inutilità di una guerra durata vent’anni. Pur se i talebani sostengono di non sapere nulla della presenza a Kabul del successore di Osama bin Laden, la sua uccisione lì è una prova dei legami mai sciolti tra il regime afghano e la rete del terrorismo integralista islamico: secondo il Pentagono, ci sono altri esponenti di al Qaida in Afghanistan, “un piccolo numero”.
Così come le cronache più recenti indicano che le frizioni fra talebani e miliziani dell’Isis, raggruppatisi in Afghanistan dopo la dissoluzione del loro sedicente Stato tra Siria e Iraq, continuano a fare vittime. Ieri, giovedì 11 agosto, un alto esponente religioso talebano. Noto proprio per i suoi discorsi infuocati contro l’Isis, è stato ucciso nella sua madrassa a Kabul: l’attacco suicida è stato rivendicato dai miliziani – tre altre persone sono rimaste ferite nell’esplosione -.
Rahimullah Haqqani era sopravvissuto ad almeno due precedenti tentati omicidi, uno in Pakistan nell’ottobre 2020. Sebbene non avesse incarichi ufficiali, era una figura influente e aveva predicato a molti ‘studenti’ nel corso degli anni. Lo Stato islamico ha affermato sui suoi social che l’attentatore ha fatto detonare il suo giubbotto esplosivo nell’ufficio del religioso.
L’Isis ha rivendicato numerosi attacchi in Afghanistan dopo il ritorno al potere dei talebani, cui contesta la trattativa con gli Occidentali. Haqqani era un fustigatore dei miliziani e, di recente, aveva anche sostenuto il diritto delle ragazze a frequentare la scuola: “Nella sharia non c’è motivo per dire che l’istruzione femminile non è consentita”.
È scontato che, tra il 15 agosto e la fine del mese – la rotta dell’Occidente si ultimò il 31 agosto, dopo giorni di tregenda sull’aeroporto di Kabul -, i media alzeranno l’attenzione sull’Afghanistan, per raccontare quel che avviene nel Paese. E ci saranno interviste a chi è riuscito a venire via, ottenendo lo statuto di rifugiato in Italia o altrove in Europa e negli Stati Uniti, e reportage su chi non ha voluto, o potuto, venire via e testimonia la crisi umanitaria e l’involuzione socio-culturale della capitale e del Paese dal ritorno dei talebani e dalla fondazione del secondo emirato islamico.
Come stanno le cose in Afghanistan, ce lo possono raccontare i pochi non hanno mai abbandonato la popolazione al suo destino, le organizzazioni umanitarie, Medici senza frontiere, Emergency. Proprio la Ong fondata da Gino Strada “conta più di 16.000 ammissioni negli ospedali di Kabul, Lashkar-gah, Anabah”. Sulle oltre 3.000 ammissioni nella capitale in un anno, le vittime di guerra rappresentano ancora il 93,5% dei pazienti: per l’80%, oltre 2.000 casi, sono feriti da arma da fuoco, ma si registrano anche feriti da armi da taglio, ricollegabili all’aumento della criminalità; il 5% continuano a essere feriti da mine e ordigni inesplosi. Spesso si tratta di bambini e minori.
Un comunicato di Emergency riferisce: “L’Afghanistan è colpito da una crisi economica senza precedenti, che affama la popolazione a causa di oltre 40 anni di guerra – l’occupazione sovietica, l’offensiva dei talebani, l’intervento occidentale, ndr -, dell’isolamento e delle sanzioni, del congelamento delle riserve afghane all’estero e della conseguente crisi bancaria e finanziaria, dell’inflazione con l’aumento di circa il 50% dei prezzi di cereali e carburante”.
Secondo la Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan, l’Unama, almeno il 59% della popolazione necessita oggi di assistenza umanitaria, 6 milioni di persone in più rispetto all’inizio del 2021. Un aumento della povertà che Emergency conferma dall’osservatorio di ospedali e cliniche di primo soccorso e salute primaria nelle province di Kabul, dell’Helmand e del Panshir”.
“Nel nostro Centro chirurgico per vittime di guerra a Kabul – spiega Stefano Sozza, direttore dell’Ong in Afghanistan – curiamo quotidianamente feriti da arma da fuoco, da proiettili a schegge, da arma da taglio, soprattutto coltellate, da esplosioni di mine e ordigni improvvisati. Il Paese soffre le conseguenze di un lunghissimo conflitto che ha minato il suo futuro”. E noi, che siamo stati parte del problema e non della soluzione, ce lo siamo dimenticati.